Recensione di BEAU HA PAURA, il film con Joaquin Phoenix solo al cinema dal 27 aprile 2023.
SCHEDA DEL FILM
REGIA: Ari Aster
CAST: Joaquin Phoenix, Parker Posey, Amy Ryan, Nathan Lane
DURATA: 179 min.
USCITA: giovedì 27 aprile 2023
DISTRIBUZIONE: I Wonder Pictures
RECENSIONE
Il pavido Beau, introverso e facile preda di ansie e ossessioni, si appresta a mettersi in viaggio per far visita a sua madre; ma, alla vigilia della partenza, intorno a lui esplode il caos. Incapace di giungere a destinazione in un mondo completamente impazzito, Beau percorrerà strade che non si trovano su alcuna mappa e sarà costretto ad affrontare tutte le paure e le bugie di una vita.
L’onirico di Fellini, il Bardo di Iñárritu, il flusso di coscienza di Joyce, il surreale di Gondry, e si potrebbe andare avanti nell’elenco della “bulimia” intellettuale contenuta nella terza opera di Ari Aster, giovane regista americano reduce di due ottime e apprezzatissime pellicole horror, Hereditary e Midsommar che lo hanno in breve tempo reso un autore di culto.
Protagonista di questo incubo ad occhi aperti è Beau, interpretato da uno stralunato (e strepitoso come sempre) Joaquin Phoenix, che qui regala qualcosa di particolare che lo rende unico, una vena terribilmente comica all’interno della vena terribilmente tragica. Non è facile da spiegare – il film è tutto tranne che semplice, anzi è profondamente complesso – ma chi almeno una volta nella vita ha vissuto una paranoia vera e propria lo sa: alla fine le paranoie fanno ridere. E Ari Aster ne è più che consapevole.
Beau vive la sua quotidianità nell’ansia e nella paranoia, ponendosi probabilmente la classica domanda “cosa accadrebbe se oggi mi scordassi di spegnere il gas?”. Queste paranoie però nel film diventano realtà e dunque Beau si trova a vivere l’incubo peggiore per chi mai nella vita è stato vittima delle proprie paure: che esse diventino appunto realtà. Niente di più drammatico della profezia che si autoavvera.
Il mondo che descrive è inquietante proprio perché è come se potessimo vedere cosa c’è nella sua testa. Provate ad immaginare se i vostri pensieri più reconditi venissero filmati da qualcuno, messi in scena, e poi mostrati al pubblico. Il mondo mentale di Beau è nel delirio più totale, un mondo ormai finito dove le persone sono impazzite, violente, sembra di stare in un film di Romero in mezzo agli zombie, in una distopia o in un film di guerra.
Si è detto bulimia, restiamo in tema perché parliamo di un film che mette in scena una psicopatologia, e perché c’è davvero tantissimo dentro: incubi, sogni, schizofrenia, il rapporto con la madre, con il padre, con il sesso, con l’amore, con l’altro in generale, la società americana, la violenza, la proprietà privata, il senso di colpa, il ritorno a casa, il trauma.
Non per niente il film inizia proprio con la scena di un parto, la nascita di Beau: il primo grande trauma che come esseri umani dobbiamo subire. Beau ha un rapporto morboso con la madre, ci sono tutta l’ansia di castrazione e il complesso edipico freudiani che hanno portato il piccolo Beau – perché questo è, un bambino nel corpo di un gigante – a rimanere drasticamente intrappolato in se stesso. Perché la vita di Beau altro non è se non “il peggior scenario possibile”.
Tanti hanno definito questo personaggio insopportabile, e credo sia perché non è facile capirlo se non si sono vissute certe sensazioni (o certe esperienze). Io credo che Beau sia la quintessenza della fragilità emotiva, e non può che suscitare tenerezza, se mai, proprio come la suscitano i bambini, impotenti di fronte alla società, ai genitori, alle loro paure.
L’Ari Aster di Beau non ha paura non scende a compromessi: probabilmente grazie al successo delle sue due prime fatiche, la produzione di A24 gli ha dato carta bianca. Il film sembra il terzo capitolo di una trilogia che parla del male interiore e mette in scena gli incubi peggiori. Qui però non si può neanche lontanamente parlare di horror. O meglio: si può dal momento in cui si accetta e si prende atto che la vita in sé sia un film horror.
Nonostante la meravigliosa complessità del film, delle tematiche e del personaggio, già prima della metà del film la lunga durata inizia a farsi sentire e il senso di girare intorno a vuoto anche. A un certo punto diventa anche uno spettacolo teatrale dove va in scena va il film stesso, in un gioco di rimandi che però si ripete e diventa troppo di maniera. E allora si smette di percepire l’universalità e la genuinità, e si incomincia a sentire puzza di artificio, un artificio che stanca, perché alla fine questo film – almeno da metà in poi – risulta un po’ “egoista”.
Margherita Giusti Hazon
TRAILER UFFICIALE
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.
Scrivi un commento