Recensione di Adoration, il film di Fabrice du Welz in anteprima in Piazza Grande al Locarno film festival 2019.

Una scena del film Adoration © Kris Dewitte

Una scena del film Adoration © Kris Dewitte

Gloria (Fantine Harduin, Happy End) è la giovane paziente di un istituto psichiatrico immerso in un bosco delle Ardenne. Paul (Thomas Gioria) il figlio dei custodi.
Scapperanno insieme, senza un piano, se non quello di eludere le porte chiuse dai loro adulti.

Presentato in Piazza Grande la penultima sera del Festival di Locarno 72, Adoration è il nuovo film del regista belga Fabrice du Welz e l’atto conclusivo della sua Trilogia delle Ardenne, iniziata 15 anni fa con l’impressionante Calvaire e proseguita nel 2014 con Alléluia, libera riscrittura della vicenda di cronaca dei famigerati “Lonely Hearts Killers”.

Se Calvaire fu così malvagio e nichilista da finire in menzione nei numerosi trattati sull’ondata di film estremi francofoni di inizio millennio (quella di Martyrs, À L’Intérieur, Alta Tensione, ecc), quella classificazione finì per incasellare un po’ troppo le ambizioni e le radici di du Welz, che infatti progressivamente si distaccò dal thriller-horror.

Una scena del film Adoration © Kris Dewitte

Una scena del film Adoration © Kris Dewitte

Adoration è lo strappo finale e probabilmente definitivo, verso un racconto che mantiene alta la morbosità con declinazione diversa e implicita, in una fuga adolescenziale à deux dettata da un complicato mosaico di instabilità mentale di lei, di accecato primo amore di lui e di pulsione di libertà di loro, entrambi bravi e sintonizzati.

Nell’ora e mezza di Adoration du Welz ricorda in una manciata di sequenze a tutti i settemila di Piazza Grande di avere visioni e percezioni da autore vero (e sottostimato), utilizzando per una volta il fioretto e riponendo la spada.

Il romanticismo tra Gloria e Paul infatti è un incendio disordinato e fuori controllo. Ma brucia più dentro che fuori la loro gimcana di ribellione piuttosto lineare. E i personaggi che incontrano sono più punti di ironica pedagogia (soprattutto il solito spettacolare Benoît Poelvoorde) che altro.

Non è chiarissimo se questa repressione narrativa sia stata premeditata o sia una resa parziale. Fatto sta che Adoration, pur nel suo malsano, inflessibile ottimismo, non è la chiusura viscerale “delle Ardenne” che ci aspettavamo.

Torna in mente Cold Water di Olivier Assayas, che però era tre volte più acuminato.

Luca Zanovello

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