*più studiano, più diventano scemi
Ho pensato a lungo a come introdurre questa recensione, poi mi son sovvenuta di questa frase che mio nonno paterno, scuotendo la testa, ripeteva ogni volta che qualcuno, più qualificato di lui, sbagliava un progetto, un lavoro, un calcolo.
Aveva solo la 5^ elementare, ma era intendente capo di una gigantesca azienda agricola, gestiva uomini, animali, profitti e una famiglia: inoltre amava la pasticceria fine, i cibi ben conditi, fare giri in vespa e piccole gite, cose così.
Ho deciso di usare questa frase come titolo alla recensione del libro “Togliamo il disturbo” di Paola Mastrocola perché… perché è quello che avrebbe detto lui, di fronte al corrente sfascio della scuola italiana.
Sia ben chiaro, io non sono qui a distribuire meriti e colpe, ma dopo 19 anni come studente e 11 come docente (più una formativa parentesi aziendal-congressuale dai 25 ai 28 anni) qualche opinione in proposito credo di poterla esprimere.
Orbene, oggi a scuola si va “per stare bene”: via il disagio, via la fatica, via lo studio e l’impegno… in un accesso di malinteso “donmilanismo” (lui garantiva a tutti la possibilità di studiare a prescindere dal reddito, ma se poi non ci si applicava realmente, erano dolori!) ai ragazzi chiediamo quello che già sanno, e poco più… la storia del quartiere alle scuole elementari, cartelloni, teatrini, laboratori, via la terribile ortografia, sostitutita con la “riflessione linguistica” (ma cosa rifletti cosa? Una regola è una regola, non un’opinione!), via studiare la lezione, i nessi logici causa-effetto, via i riassunti, così poco creativi, via i temi, così faticosi… via la lettura ad alta voce che può imbarazzare e traumatizzare… via il corsivo che è un’inutile imposizione… non è capace? Come minimo è dislessico…
… beh, io dico una cosa sola: lo studio è consolazione, ma è anche disagio.
Lo studio vero, intendo, non quella patina di pseudo-cultura con cui pitturiamo i ragazzi che escono dalla scuola dell’obbligo.
Eh, già, l’obbligo: quando spiego ai miei allievi che in origine aveva come scopo impedire ai contadini di spedire i figli al pascolo, nei campi e in risaia, invece che fra i banchi, restano basiti.
Tutti credono che serva per evitare le bigiate…
E non raccontatemi che adesso “ci sono gli stranieri in classe, come fai a portare avanti un programma”: alcuni dei miei alunni più bravi sono indiani, rumeni, baschi…
I ragazzi stranieri sono esattamente come i nostri: se han voglia studiano, se non ne hanno, no.
Beh: per tornare al libro, il nocciolo centrale, la triste riflessione dell’autrice è che, nonostante il benessere e il permanere dei ragazzi almeno 10 anni a scuola, nonostante le magnifiche sorti e progressive, internet e via dicendo, i ragazzi sono mediamente più ignoranti dei loro nonni – che, ricordiamolo, arrivavano in prima elementare parlando, di base, solo il dialetto – e che la preparazione di un licenziato di terza media corrisponde, più o meno, alla quinta elementare degli anni ’60.
E, all’uscita da questa fantomatica terza media, dopo un’esame che dura una settimana, con 6 scritti e un orale totalmente finti, la metà delle famiglie iscrive questi fanciulli… al liceo.
Per poi condurli stentatamente all’Università, fra mille ripetizioni, debiti, crediti e puntelli, e ottenere una laurea breve in una facoltà cosiddetta “debole” (cioè non Medicina, Lettere, Legge, Economia, bensì Comunicazione, Antropologia, Beni Culturali e via dicendo): una facoltà che non offre alcuno sbocco nel mondo del lavoro, perché non corrisponde ad alcuna professione richiesta dal mercato. Una laurea buona da appendere in salotto…
In sintesi, per concludere, mi ha fatto male leggere l’opera di questa autrice, perché ha purtroppo unito i vari tasselli che giacevano sparsi nella mia mente a comporre un puzzle che non mi piace , che mi fa sentire inutile, e che fa venire voglia di dire anche a me: tolgo il disturbo.
Ma se scavo nell’amarezza, trovo una riflessione ancora più sconsolata e amara: ai ragazzi diamo una scuola senza futuro, perché glielo abbiamo tolto.
Diamo una scuola ricca di attvità opzionali e in cui “si stia bene” perché i genitori non hanno più tempo, energia o voglia di seguire i figli, e allora dobbiamo offrire un parcheggio gradevole nel quale lasciarli da mattina a sera.
E con l’espressione “abbiamo tolto il futuro” intendo dire che, in una società stagnante e “priva di padre” – passatemi il termine – come la nostra, noi non abbiamo bisogno di giovani che escano agguerriti da scuola, ben decisi e orientati verso una scelta di vita: no, noi abbiamo bisogno di formare degli individui demotivati, privi di competenze, flessibili possibilmente fino a mettersi a novanta, da sbattere da un call center all’altro, da un catering a un servizio hostess, da un help desk a un volantinaggio.
E a questo punto, preferisco non dire altro: rileggendo il pezzo, mi rendo conto di quanto sia contro-tendenza e politically uncorrect, disallineato rispetto alla didattica per competenze, alla progettazione modulare e agli obiettivi del Consiglio d’Europa in materia d’istruzione… ma vedo anche, con gli occhi della mente, il nonno che mi strizza l’occhio e mi sorride…
Mata Hari danza in cucina, piroetta con maestria fra ingredienti esotici o contadini, si produce in un doppio avvitamento verso la cantina, per scegliere la bottiglia più adatta alla pietanza consigliata. Scordatevi i virtuosismi alla Carla Fracci e concentratevi sui sapori: tra un pizzico di sale ed uno di ilarità, ne resterete sedotti ed ammaliati.
Devo ammetere che, leggendo la recensione di MH, se da un lato si prova tristezza dall’altro si resta rincuorati sapendo che ci sono ancora persone che sanno analizzare la realtà ed indurre riflessioni.
Brava!
Ti ringrazio davvero.
Mi è costato molto scrivere queste cose, a nessuno piace pensare di lavorare quasi invano, ma d’altro canto è necessario iniziare a dirsele.
Un abbraccio :-)
che dire… e pure se te lo dicessi… che te lo dico a fà!!
la tua lucidità, come sempre, mi stupisce, e un po’ m’avvilisce, perchè mi rendo conto che hai sempre ragione tu, porca pupazza!
Queste tue parole hanno centrato esattamente il bersaglio. Condivido in pieno, da (quasi) quarantottenne che ha frequentato un “vecchio” tipo di scuola, che facendo ogni tanto “ripetizioni” ai ragazzi di medie e superiori si trova davanti lacune allucinanti (“perchè, tra sostantivo e aggettivo che differenza c’è?”)……… lo scenario è del massimo sconforto…………bisognerebbe ricominciare da capo………. In bocca al lupo ai futuri educatori………….
Bella recensione. Non ho apprezzato il libro della Mastrocola, per una serie di ragioni, prima fra tutte lo scarso rigore scientifico nella documentazione. Ma apprezzo molto il tuo scritto. Da collega “all’antica”, e con trentadue anni di esperienza sulle spalle, mi permetto di incoraggiarti: non lavori “quasi invano”. I ragazzi hanno questo di buono: non si fanno prendere in giro. Sono loro i primi a sapere che lo “star bene a scuola” è una frottola, e ad apprezzare gli insegnanti degni di questo nome: cioè quelli che insegnano, che richiedono loro un po’ di fatica o anche molta fatica, ma danno loro in cambio la soddisfazione di imparare qualche cosa. Io insegno pedagogia in un liceo soci opsicopedagogico: sono la professoressa più temuta della scuola, quella che ha più debiti, quella che dà tutti i voti, da uno a dieci… e sicuramente sono molto più frequenti i “due” e i “tre” rispetto agli “otto” e ai “nove”… eppure ti assicuro che gli studenti mi apprezzano, vengono a trovarmi anche molti anni dopo il diploma, e sono fieri di essere miei allievi perchè, come solitamente dicono, “vale di più un quattro con la Ansaldi che un sei con chiunque altro”. Quando sei una persona seria e lavori seriamente, i ragazzi capiscono: e spesso ricambiano con altrettanta serietà. Quindi, prosegui tranquilla per la tua strada, fai il tuo lavoro, infischiatene della vuota terminologìa con cui una inesistente pedagogia ministeriale sta cercando di rivestire il nulla, e infischiatene anche dei colleghi che ci credono o fingono di crederci: finchè esiste, sancìta dalla Costituzione, la libertà d’insegnamento, siamo liberi di fare quello che il nostro lavoro ci richiede di fare: insegnare. Ciao.
“Un parcheggio gradevole”….”società priva di padre”….hai centrato in pieno! E iniziano già da prima dell’obbligo, pseudo genitori senza “polso” che lasciano decidere al figlio:”Ti vengo a prendere a che ora?-Domani non viene, gli ho promesso che poteva stare a casa!-Oggi ha mangiato?” e noi (insegnanti della scuola dell’infanzia, “pieni”-?!-di programmazioni educative e didattiche) ci chiediamo …ma la scuola “serve”?! E nella scuola dell’obbligo, studiare poi Tasso……serve?! O diventa più importante passare il pomeriggio in chat, scegliere un capo in un outlet o comprare il motorino?!? E intanto si parla di didattica, di competenze, di Consiglio d’Europa….come giustamente dici tu! E quanto mi sento anch’io, con te, “contro-tendenza”! Grazie per l’appropriata recensione! M.V.
E’ bello per me ricevere la vostra opinione, scritta in modo così diretto e sincero, e sentirvi “dalla mia parte”.
In questo difficile scorcio di fine anno scolastico, è importante sentire delle voci come le vostre, che stonano rispetto allo spirito dei tempi e al migliore dei mondi possibili… grazie prof. Ansaldi, M.V., Emma e Francesca!
[…] lettore chissà se l’ha insegnata un donmilanista) e sul web si trovano recensioni positive come Puse’ i studien, puse’ i diventen scemi. A me questa restituzione di Don Milani continua a non convincere: non parla del donmilanismo ma è […]