Per uno di quegli straordinari casi della vita che passano sotto il nome di “coincidenze”, ho avuto l’occasione di fare due chiacchiere su questo libro un paio di secondi dopo averlo terminato.

Ero in metropolitana, ed una volta letta l’ultima riga ho chiuso il libro e sollevato lo sguardo, per incontrare quello – interrogativo – di un altro passeggero: aveva tra le mani una copia di XY, giunto più o meno a metà. Ci siamo scambiati un sorriso vicendevole ed io mi sono lanciato nel mio numero preferito, quello della frase ad alta voce “bel libro, eh, con quella sorpresa nel finale quando…” interrotta allo sguardo colmo di paura dell’interlocutore.

Riagganciandomi a questo, meglio dissipare subito un dubbio: questo NON è un romanzo giallo. I toni sono decisamente noir nella prima parte, ed il racconto della strage nel bosco, dell’albero ghiacciato di sangue, delle indagini e degli inevitabili insabbiamenti sembrano lasciar presagire uno schema classico della letteratura di investigazione. Ma è proprio da quel momento che il romanzo di veronesi comincia a regalare il suo meglio: nell’intreccio delle storie di Don Ermete e della giovane psicologa Giovanna – due figure assolutamente memorabili – si innestano riflessioni sul dolore e sulla paura di ogni giorno, in un gorgo vorticoso che trascina nell’abisso.

E’ per questo che, volendo tornare al mio incontro in metropolitana, sono rimasto un po’ perplesso quando ho sentito il giudizio un po’ tranchant del mio vicino di lettura: ha trovato intrigante la prima parte ed un po’ pesante la seconda.

Caro amico di sette fermate della M1, non sono d’accordo e mi distanzio da te di una sola consonante: non l’ho trovato pesante ma pensante, originale persino in un tema abusato come quello del confronto scienza-religione, e stimolante persino in quel finale che tante critiche e pareri sta sollevando nel variopinto mondo del web.

La citazione:
“Se esistono le parole per dirlo, è possibile.”