Recensione de I Giganti, il film italiano in Concorso Internazionale al Locarno Film Festival 2021.

In una casupola nelle campagne della Sardegna, quattro vecchi amici si ritrovano per una serata a base di alcool e droghe. Ma la rimpatriata porterà con sé demoni del passato, questioni irrisolte e violenze soffocate…
film I Giganti. Photo: courtesy of Locarno Film Festival 2021.

Una scena del film I Giganti. Photo: courtesy of Locarno Film Festival 2021.

L’unico film italiano del Concorso Internazionale del Festival di Locarno è I Giganti del regista ed attore Bonifacio Angius, già in lizza nell’edizione 2014 con Perfidia.
Per quelli che speravano che l’effetto magico dell’estate musical-sportiva tricolore contagiasse anche il nostro cinema, brutte notizie: I Giganti è un’opera che, messi da parte i patriottismi, lascia perplessi dall’inizio alla fine.

Angius circoscrive il suo dramma sull’esistenza, l’amicizia e il passato tra le quattro mura perennemente in penombra di una casa lontana dal mondo e attorno ad un quintetto di attori dalle facce ispide – tra cui lo stesso Angius – tramutandolo così in una piccola tragedia (o tragicommedia?) dai connotati teatrali.

I presupposti scarni de I Giganti tali rimangono, mentre gli ottanta minuti del film mettono dolorosamente a nudo i limiti del progetto, affidato a una voce narrante che apre e chiude con una pletora di aforismi banali (“la gente dice una cosa e ne fa un’altra”) ed in mezzo dialoghi serrati a ping-pong che girano in tondo mordendosi la coda, senza trovare mai quell’effetto di saggezza / non saggezza naïf tossica e depressoide probabilmente ricercato.

Stefano Manca in una scena del film I Giganti. Photo: courtesy of Locarno Film Festival 2021.

Stefano Manca in una scena del film I Giganti. Photo: courtesy of Locarno Film Festival 2021.

Sono soprattutto le parole de I Giganti, difatti, ad irritare. I suoi protagonisti sono uomini rudi in preda a turpiloquio e misoginia, agli istinti e alle frustrazioni, maneschi ed alcolizzati, sprovvisti di fascino pulp e pure di un vero realismo umano che provochi sana, inequivocabile repulsione. Anzi, sembra che la penna che li tratteggia tenti di suscitare una sorta di empatia, di strappare qualche facile risata al cospetto delle loro vite disgraziate, che difatti vanno definitivamente alla deriva durante il breve arco temporale del racconto.

Breve, ma faticoso. Se i dialoghi, appunto, sono uno sciroppo amarissimo e scontato da buttare giù (la leggenda metropolitana della lattina piena di sperma era già stantia ai tempi delle medie), l’evoluzione degli eventi e il loro significato, complici anche dei flashback confusi e confusionari, sembrano una bozza di qualcosa che non vedremo mai. E l’esplosione della violenza, che aleggiava dal minuto zero e che finalmente arriva chiudendo i giochi, non lascia un grammo di contenuto o di catarsi.

Luca Zanovello

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