Recensione de La Conseguenza (The Aftermath), il film di James Kent tratto dall’omonimo best-seller di Rhidian Brook. Al cinema dal 21 marzo 2019.
Creare un lungometraggio drammatico-sentimentale a sfondo bellico non è cosa semplice. Coinvolgere il pubblico sino a farlo soffrire coi protagonisti, poi, richiede una maestria tale da meritare ogni possibile successo, dal botteghino alla critica. Ma imbastire un melò ridicolo è impresa ancor più ardua. La Conseguenza (The Aftermath) appartiene a quest’ultimo caso: è un film così dissestato e fuori tempo massimo da prenderci in contropiede.
A proporre nel 2019 una storia di morte e rinascita all’ombra del secondo conflitto mondiale, con tanto di liaison dangereuse tra una fragile e contrariata sposa britannica e un povero vedovo tedesco ci vuole un gran coraggio. Ma, ammettiamolo, la letteratura è piena di romanzi che ci hanno fatto battere forte il cuore con intrecci vari e variegati. Idem la cinematografia, dai classici come Via Col Vento, ad opere più recenti, vedasi I Ponti di Madison County (1995) o, ancora più vicino a noi, Le pagine della nostra vita (2004) e One Day (2011). Quindi perché non emozionare l’audience una volta ancora?
Che bella idea!
Si entra in sala carichi di speranza, tanto più che il cast è composto da un trio che potrebbe funzionare: Keira Knightley, adusa ad interpretare donne d’altri tempi, Jason Clarke e Alexander Skarsgård. E la trama si basa sull’omonimo best-seller dello scrittore Rhidian Brook (nelle nostre librerie dal 19 marzo 2019), tratto dall’incredibile storia vera di suo nonno, il Colonnello Walter Brook, di stanza vicino ad Amburgo nell’immediato dopoguerra.
James Kent, regista col dono per le mini-serie TV e con esperienza nel documentario, nonché appassionato di storia, vorrebbe tradurre in immagini il tumulto interiore di due anime che la guerra ha messo a dura prova, e farle tornare a vibrare. Vorrebbe narrare una storia universale di cuori spezzati. Invece qualcosa di differente si spezza e l’empatia tra la platea e gli eroi sullo schermo non si palesa mai.
Non è questione di mancanza d’amore, sofferenza, intrighi e sotterfugi, è proprio un problema di passione: serve tantissima passione per far funzionare una trama simile e nel film prodotto da Ridley Scott (!) l’emozione latita. Eppure in 1 ora e 36 minuti c’era tutto il tempo per far affezionare lo spettatore ad almeno uno dei personaggi.
Ma facciamo un passo indietro: la trama.
Amburgo, 1946. Una splendida villa viene confiscata al legittimo proprietario, l’architetto Stephan Lubert (Alexander Skarsgård), per darla al colonnello Morgan (Jason Clarke) e consorte (Keira Knightley). Gli Alleati hanno vinto la guerra e ora devono organizzare la ricostruzione in una città dove la popolazione è affamata e/o ostile. Ad Amburgo tocca agli inglesi scovare nazisti e simpatizzanti. Devono trovare i traditori senza lasciarsi sfuggire nulla e nessuno.
Il signor Lubert è uno dei tanti che deve dimostrare di essere “pulito” per ambire ad un futuro. E perdere la sua meravigliosa casa lungo il fiume Elba è uno dei prezzi da pagare. Ma è fortunato perché il Colonnello non è un invasato a caccia d’un nemico debole su cui infierire e vendicare coloro che non è riuscito a salvare. Lewis Morgan è un brav’uomo che vuole fare la sua parte per chiudere definitivamente quell’ingrata pagina di storia. Al posto di cacciare Lubert (e figlia!) in un campo, li fa rimanere in casa, al piano più alto: finiscono in soffitta.
Inizia così una convivenza che attira attenzione e critiche, genera tensione, imbarazzo e provoca l’inevitabile: fa sbocciare l’amore “impossibile”. Un amore che non vediamo né crescere né consumare gli stessi interessati. Un colpo di fulmine che rischia poco eppure finisce inspiegabilmente sulle bocche di tutti. Un sentimento così fulmineo che neppure noi riusciamo a godercelo.
E non è un buon segno.
Ogni scena ed evento seguono un manuale noto. L’ardore che dovrebbe far esplodere un pandemonio, l’agguato che ci fa temere l’ineluttabile, le scelte e i dubbi difficili si tramutano in occasioni costantemente sprecate con leggerezza. Dialoghi sterili, inquadrature che sanno di vecchio, musiche al risparmio (nel repertorio per pianoforte non esiste solo il Claire de Lune di Debussy!) segnano infatti la disfatta del progetto e ci inducono a credere che qualcuno fosse svogliato.
La sensazione è che il racconto nel passaggio dal libro, che si dice sia un fantastico voltapagina, al cinema abbia perso la sua allure. E a noi ora tocca sorbirci una pellicola che ci ricorda quelle Anni 80, prevedibile ai limiti dello sbadiglio, con scene che al posto di farci palpitare ci provocano risatine convulse. La cosa più bella rimane il trailer con tutte le speranze che riesce ad infondere. E chissà se, per una volta, il doppiaggio riesca a fare un piccolo miracolo rendendo la visione più sopportabile.
Vissia Menza
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”
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