Recensione de I Villeggianti, il nuovo film diretto e interpretato da Valeria Bruni Tedeschi al cinema dal 7 marzo 2019.
“Ho provato ad affogare ma non ci sono riuscito”.
Neanche morire in pace si può, nella società artificiale, sorda, arrivista, arrogante e vuota raccontata da Valeria Bruni Tedeschi ne I Villeggianti.
Protagonista Anna (interpretata dalla Bruni Tedeschi stessa), una regista alle prese con la fine di una storia d’amore e la realizzazione del suo nuovo film, che raggiunge figlia, amici e parenti nella bella villa in Costa Azzurra dove è solita passare le vacanze.
Nonostante le lodevoli intenzioni della Bruni Tedeschi, alla sua quarta prova da regista, il risultato purtroppo è deludente sotto tanti punti di vista. Spunti e argomenti attuali e profondi come la solitudine, l’invecchiamento, la separazione, la morte, non sono minimamente approfonditi e vengono affrontati solo in superficie. In nessuna sequenza si intravede l’interesse per i misteri dell’esistenza.
Le idee dei personaggi sono veicolate da dialoghi che né a livello psicologico né a livello narrativo sembrano davvero dare spessore ai pensieri. Tutti i personaggi si muovono sulla scena come delle entità scollegate. Quello che davvero manca è la relazione fra loro, come se le azioni non avessero conseguenze né sugli altri né sullo sviluppo del film.
Ciò che più stupisce è che la Bruni Tedeschi – che di solito regala interpretazioni toccanti, un po’ stralunate ma poetiche – qui non riesce nemmeno a sfiorare corde che sono di tutti noi. Eppure chi non ha mai vissuto la fine di una storia d’amore? Non c’è argomento più universale, ma empatizzare con il suo personaggio è davvero difficile. Perennemente su di giri, indecisa fra il pianto e la risata nervosa: le ansie, le paure, i dolori che sulla carta ci si aspetterebbe di trovare, lasciano spazio a una teatralità esagerata che la fa risultare quasi irritante.
E non è molto diverso per il resto dell’entourage, dove tutti ridono quando dovrebbero piangere. Anche quando parlano di stupro, aborto, morte, non fanno altro che ridere e continuare a bere. Lo fa notare anche Bruno (finalmente!), attore di teatro francese che qui interpreta uno degli amici di famiglia e che a un certo punto decide di fare una fuga (e forse di uccidersi?) in mare e tornare dopo un paio di giorni, in mutande, e pronunciare la più bella battuta del film: “Ho provato ad affogare ma non ci sono riuscito”.
Che cosa vuole essere dunque questo film? Una riflessione metacinematografica? Una denuncia sociale? Uno scorcio di autobiografia? La Tedeschi stessa al minuto cinque mette le mani avanti con molta autoironia: in una riunione di sceneggiatura, i possibili produttori e sponsor del suo prossimo film (fra i quali fa un cameo anche Frederick Wiseman) le fanno notare che questa sua opera è uguale a tutte le precedenti e parla sempre delle stesse cose. Ma dov’è lo sguardo di chi ha pensato, scritto e diretto questa storia? Per quanto io nutra un profondissimo rispetto per chi provi a parlare in modo intimo di se stesso, qui forse la voglia di lasciarsi andare in siparietti comici, su di giri, bizzarri e spesso senza motivazioni, si è mangiata gli aspetti più intimi, personali e cupi di una storia ispirata alla vita vera.
Tema centrale de I Villeggianti è infatti proprio scrivere, fare film o comunque fare arte in generale prendendo ispirazione dal proprio vissuto. Tema carissimo a chiunque abbia provato a raccontare una storia. Per scrivere bene, si sa, bisogna parlare di cose che si conoscono. Ma c’è un limite da non oltrepassare, quando non si racconta solo di se stessi ma anche delle persone che ci stanno intorno?Tutti non fanno che ripetere ad Anna – che sta scrivendo un film sulla morte del fratello dove racconterà tante vicende reali – che non ha rispetto per i morti, ma di nuovo, nonostante l’universalità dell’argomento, questo viene solo accennato e non si entra nel profondo della tematica. Anche il conflitto di classe è più debole che mai, non riesce a coinvolgere e anzi risulta troppo costruito e stereotipato.
Forse alla fine più che in Bruno, che comunque fa parte di quel mondo, lo spettatore si immedesimerà in Nathalie (Noémie Lvovsky), protagonista delle scene più spassose del film, che interpreta la cosceneggiatrice del film che Anna sta scrivendo: invitata in villa per lavorare, si ritroverà in questo vortice di non curanza senza capirci niente ma solo sentendosi molto a disagio e non vedendo l’ora di tornarsene a casa.
Margherita Giusti Hazon
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.
Scrivi un commento