La recensione di Green Book, il film diretto da Peter Farrelly con Viggo Mortensen e Mahershala Ali al cinema dal 31 gennaio 2019.
“Nel corso degli anni, quando le persone mi chiedevano se avessi mai fatto un film drammatico, la mia risposta è sempre stata: Sì, quando arriverà il momento. È l’universo che te lo porta. È come chiedere a qualcuno: Quando ti innamorerai? Quando arriva… arriva”.
E in quel caso, arriva sempre nel momento sbagliato. Lo stesso non si può dire del primo film drammatico di uno dei due fratelli Farrelly, Peter, conosciuti per le loro esilaranti commedie (Scemo e più scemo, Tutti pazzi per Mary, Lo spaccacuori).
È usanza abbastanza comune ritenere che sia più facile scrivere una storia che fa ridere rispetto ad una drammatica. Questo non è sempre vero, o meglio, non è vero per un certo tipo di commedie, e sicuramente non è vero per Green Book.
Si ride tanto, il politically scorrect è sempre dietro l’angolo e la dose di caratterizzazione dei personaggi è altissima. Ma non è tutto qui, perché Green Book è un film che sorprende sotto tanti punti di vista (e non solo perché lo dimostrano le Nomination agli Oscar, dove il film ha davvero fatto incetta, comparendo nelle categorie più importanti: Miglior film, Miglior attore protagonista e non – per Viggo Mortensen e Mahershala Ali – Miglior sceneggiatura originale (meritatissima e per cui farei il tifo se non fosse che compete con First Reformed) e Miglior montaggio.
Green Book non è solo un film sentimentale, edificante e blablabla – tutte parole che stanno assumendo un’accezione negativa, come se i film dove si indagano i sentimenti fossero più terrificanti di Michael Myers. E in effetti la maggior parte lo è, ma qui siamo di fronte a qualcosa di diverso.
L’abilità di Peter Farelly nel costruire e delineare personaggi e tratteggiare con grande realismo situazioni è ben nota, ma quando questo talento incontra una storia vera toccante e attuale, il risultato è un piccolo gioiello.
1962, New York. Tony Lip, buttafuori italoamericano, dopo la chiusura del locale dove lavorava, deve trovare un nuovo impiego per mantenere la sua famiglia. Accetta così di lavorare per il pianista afroamericano Don Shirley e decide di fargli da autista in occasione di un tour nel sud degli Stati Uniti, dall’Iowa al Mississippi. Sarà un viaggio difficile, in un’epoca in cui la segregazione razziale era estremamente forte e radicata.
Un on the road nato dall’intenzione del figlio di Tony, Nick Vallelonga, di far rivivere sul grande schermo la storia di questa profonda amicizia. Questo è stato possibile grazie all’aiuto dell’attore e scrittore Brian Currie che ha accettato di scriverla insieme a lui, e al successivo innamoramento di Peter Farrelly che, una volta letto il soggetto, non ha più potuto fare a meno di pensarci.
Sorprende la bravura del regista nell’essere riuscito a descrivere, con estrema sensibilità ed efficacia – soprattutto attraverso i gesti, le azioni, e il sottotesto governato splendidamente – due personaggi così autentici, così diversi e conflittuali.
Gli esilaranti dialoghi nonsense – marchio di fabbrica dei Farrelly – qui lasciano spazio a dibattiti e battibecchi basati proprio sul conflitto fra i due personaggi: fin dall’inizio è evidente che i due abbiano qualcosa di molto più profondo in comune, un’alchimia rara che dovranno scoprire. Sono due outsider, due pesci fuori d’acqua, quelle persone che una volta che si trovano non si lasciano più.
Ed è proprio dal conflitto – motore unico di ogni grande storia che si rispetti – che prende il via la narrazione. Don Shirley è un uomo di grande cultura e riservatezza, raffinato ai limiti dello snob; Tony è il tipico macho di strada, estroverso, chiassoso, duro. Viggo per la parte ha subito una vera e propria metamorfosi fisica (avrà preso almeno 15 kg) e il risultato è che in ogni scena non sai se vorresti abbracciarlo o schiaffeggiarlo.
Come si fa a non volergli bene? Anche se non sta un attimo zitto, fuma e mangia in continuazione, è invadente ed è tutto fuorchè una persona discreta e a modo, è un uomo diretto e tutto d’un pezzo, di buon senso e dal cuore grande, che non intende sottostare alle situazioni razziste e segregazioniste che si infittiscono sempre più mentre il loro viaggio prosegue verso sud.
Green Book prende infatti il titolo da The Negro Motorist Green Book, una guida turistica che è stata pubblicata annualmente dal 1936 al 1966, che elencava le strutture che ammettevano e servivano clienti di colore.
La strada verso sud è anche quella che i due protagonisti compiono a livello interiore: entrambi dovranno compiere un viaggio alla scoperta di se stessi, aprirsi gli occhi a vicenda, imparare ad accettare le proprie origini e comprendere che solo così è possibile vivere una vita degna di quel nome.
Tempi comici a orologeria, umanità, tragico e divertimento sempre in equilibrio, e una comicità che non è mai fine a se stessa ma è veicolo per rappresentare i contrasti fra i due. E poi le scene in cui Don Shirley aiuta Tony a scrivere delle semplici ma sentite lettere d’amore alla moglie sfiorano livelli di romanticismo davvero irresistibile.
Questo film fa stare bene. Cosa gli si può chiedere di più?
Margherita Giusti Hazon
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.
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