La recensione del thriller La prima Notte del Giudizio, prequel della saga di The Purge diretto da  Gerard McMurray. Al cinema dal 5 luglio 2018. 

La locandina italiana del film La prima notte del giudizio

La locandina italiana del film La prima notte del giudizio

Invece sì, e in fretta. Giunta al quarto capitolo, la saga di The Purge piazza l’immancabile prequel. Tutto iniziò nel 2013 con La Notte Del Giudizio, arguto film low budget scritto e diretto da James DeMonaco che giocava su un gustoso e allettante soggetto, quello di un’America che ha istituito l’annuale notte dello Sfogo, dodici ore in cui ogni crimine è lecito, anzi caldeggiato; per liberarsi dagli istinti violenti, decomprimere l’animo oppresso o magari solo saldare qualche conto in sospeso.
Seguirono poi altri due capitoli fiacchi (Anarchia ed Election Year) che poco aggiungevano alla minestra, filmini col freno a mano, vicende pretestuose e nessuna teoria sulla violenza (che, per sicurezza, se ne stava perennemente fuori campo).

La Prima Notte Del Giudizio (The first Purge) prova a rivitalizzare o ri-sfruttare il franchise tornando all’immediata vigilia del primissimo Sfogo, circoscritto all’isola di Staten Island, New York, in quella che si potrebbe definire una fase sperimentale del progetto.
Mentre potenti e politici random monitorano e tastano il polso dei cittadini, la sirena suona e le strade diventano campo di battaglia: una gang di spacciatori afroamericani, una piccola comunità cristiana e un ragazzino con un conto in sospeso con uno psicotico teppista di quartiere convergono e cercano di arrivare integri all’alba.
Ad ogni angolo della strada, intanto, le cose precipitano.

Una scena del film La prima notte del giudizio - Foto (c) Universal Pictures

Una scena del film La prima notte del giudizio © Universal Pictures

Precipitano, ma col paracadute. E soprattutto senza esagerare. Perché nonostante il potenziale apocalittico, La Prima Notte Del Giudizio conferma il trend tiepido e trattenuto della serie, promettendo caos e consegnando una pernacchia.
DeMonaco, che stavolta scrive e lascia la regia (pessima) a Gerard McMurray, continua a maltrattare uno spunto potenzialmente graffiante e sanguinario, tradendo l’ispirazione b-movie e il lascito di John Carpenter e Walter Hill.
Le dinamiche innocue dei protagonisti si innestano sullo sfondo di quella che potrebbe essere l’apocalisse in terra ma che somiglia più ad un carnevale di Viareggio dove qualcuno ha alzato troppo il gomito: Skeletor, un interessante personaggio da tribalismi Mad Max, viene relegato a mascotte, mentre emerge con prepotenza ma senza logica la moralina del cattivo “relativo” che si redime e del debole che la spunta a priori.

E ad abbattere una pazienza che già vacilla, la seconda parte del “primo sfogo” viene risucchiata in un teatrino di stucchevole (per intenti e scrittura) pippotto politico: come se non bastassero i pezzi grossi trumpisti che bramano la carneficina, i biondi malefici e la questione sociale, ecco che anche una spietata banda di narcotrafficanti diventa magicamente la comitiva diretta a Oz.
Scelte kamikaze che annientano tutto il divertimento che le premesse potrebbero suggerire o qualche eccesso umano che possa trasmettere tensione, disgusto o riflessione.
Compito per il primo Sfogo internazionale: rapire DeMonaco, legarlo e percuoterlo con la sceneggiatura di Distretto 13.

Luca Zanovello