© Festival de Cannes

Due giorni, cinque ore di fila dopo e una fame atavica sulle spalle ma oggi, alla fine, sono riuscita a vedere nuovo lavoro dei fratelli Coen ☺ “Inside Llewyn Davis” era, infatti, il film più atteso e il più chiacchierato, è stato (sino ad ora) il più applaudito e (per molti) il più convincente, e di sicuro ha messo a dura prova la resistenza di molti per quanto difficile da accedere.

Subito scopriamo che l’opera si presenta come uno scorcio nella vita di un musicista (Llewyn Davis s’ispira a Dave van Ronk, amico di Bob Dylan e padre della musica folk anni ’60), di una persona che cercava rendere un mestiere la propria passione, ma è anche la fotografia di una città e di un’epoca che di lì a poco avrebbe segnato la storia della musica (non solo folk).

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I fratelli Coen con il loro umorismo, con il loro cast che annovera sempre personaggi caratteristici, col supporto di una fotografia impeccabile e, a questo giro, con il fondamentale apporto della musica, ci accompagnano, infatti, nella New York del 1961 rendendola davvero reale al punto da voler saltare dentro la pellicola.

Ammettiamolo, molti di noi sino a ieri non avevano idea di chi fosse Dave van Ronk, in pochi hanno familiarità con la musica folk (genere che non ci appartiene) e, posta la lontananza, è difficile avere una chiara idea di cosa significasse vivere negli anni sessanta in America, di come fosse la scena musicale newyorchese, e soprattutto di quale fosse il giro di locali che offrisse maggiori possibilità d’emergere.

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Di sicuro, in molti ci hanno fatto credere che fosse un’epoca in cui gli idealisti e i sognatori avevano ancora la possibilità di vedere le speranze trasformarsi in realtà, quindi seguire la storia del nostro Llewyn in una Manhattan prima dell’arrivo di Dylan (quindi in un’epoca in cui il fermento musicale era vivo, ma senza i riflettori del pianeta puntati) ci incuriosisce non poco e arriviamo a sperare che il ragazzo riesca a vivere una favola.

La vera protagonista rimane comunque sempre e solo la musica, ben distante dall’essere una mera colonna sonora, che riesce addirittura a ribaltare i ruoli: ben presto ci dimentichiamo degli attori, la primadonna ha tutta la scena ed impone ai suoi interpreti di farla propria, di lasciarla entrare sotto pelle così che possa rivivere una volta in più.

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Il lavoro dei registi è impressionante, meticoloso e ricco di particolari; la performance di John Goodman è una vera perla; la presenza del gatto rosso è inequivocabile segno del genio dei due fratelli; e la fotografia provoca emozioni. L’opera è solida e indistruttibile, però si discosta molto dai precedenti film del duo. Mettiamola così, si deve amare non solo la musica ma soprattutto quella folk che è mostrata dal primo all’ultimo accordo, cosa che può risultare poco digeribile se si apprezzano altri ritmi.

In conclusione: polso di ferro e ottima confezione, ma il film non è per tutti.

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