Ha proprio ragione, presidente. Il posto fisso annoia.

Ben lo sapeva la mia bisnonna Maria che ogni anno, dopo aver svernato in una casa di signori facendo la cuoca, ai primi tepori la catèva su arian e barian* e scappava a fare la capomondina in Piemonte, dove per tutti era la Sciura Maria, non la serva di qualcuno: e trattava alla pari con caporali e padroni, e aveva sotto di sé decine di donne dai 12** ai 60 anni che la rispettavano.

Poi tornava, e l’estate trascorreva un po’ più allegra perché almeno faceva caldo, e non toccava mettersi gli stivali di gomma della cugina di due numeri in meno, o i gurlòn, zoccolacci di legno inchiodati con cuoio e gomma, che spaccavano i piedi provati dai geloni, e lei poteva stare con le sue figlie, che d’inverno vedeva meno, chiuse in casa a fare le finiture che portavano loro le magliaie di professione, finiture troppo noiose e per cui ci volevano la vista buona e le manine fine della gioventù.
Così poteva stare anche un po’ col figlio minore, epilettico, per il quale la mutua non passava alcunché, anche perché lei era vedova di un simpatizzante socialista, portato via dalla miseria a trent’anni.
Anche le sue figlie, mia nonna e mia zia, erano più contente d’estate: lavare al fosso non era agghiacciante, e si poteva andare in giro per i campi a rubare qualcosa, e al limite mangiare i spusétt, le libellule, che forse lei non lo sa, ma per qualcuno nella Bassa dei tempi andati sono state fonti di proteine non trascurabili.

Ha ragione, la mia bisnonna il posto fisso dai signori non lo voleva proprio: pensava che le rubasse quel poco di fierezza e dignità che le era rimasto. Preferiva farsi divorare, rispettata, le gambe da zanzare e bisce d’acqua, e caricare le sue quattro miserie sul carro l’11 novembre, se necessario.

Ha pensato questo anche quando la sua figlia minore ha dovuto andare a sbarcare il lunario in un circo? Aveva undici anni, e stava via da casa per lungo tempo, con una coppia di sinti che la adoravano e l’avevano presa come una figlia siccome, diversamente da tutte le altre famiglie della carovana, non potevano averne di loro.

Un bel giorno essi hanno chiesto, dietro offerta di denaro, di cedere definitivamente la bambina: aveva già detto di sì, perché era inverno e stavano per morirsi di fame, quando, in bici attraverso le campagne, è arrivata sua sorella, vedova con figli, che per campare affittava le stanze del suo povero cascinale alle signorine che si intrattenevano coi Tedeschi.
Allora dopo averle parlato e avere pianto molto, quando i sinti tornarono la mia bisnonna disse una sola frase “Scultì, sciuri:’n due se mangia in quater, se mangia anca in cinc”*** e in questo modo ha probabilmente contribuito a salvare la minore, mia nonna, perché dopo poco sono iniziate anche le persecuzioni degli zingari, e tutti sappiamo com’è andata la storia.

Vede, presidente, tutto questo mi è venuto in mente in questi giorni,  a sentirvi dire le stronzate che dite. Se la precarietà è un valore aggiunto, perché il culo da quel cadreghino voi non lo staccate mai?

E’ una cosa che ho pensato molte volte, nei giorni e nelle sere in cui, per pagare l’affitto, siccome lo stipendio non bastava, mi sono trovata a fare quello che avevo imparato quasi per scherzo: leggere le carte e la ventura, e ballare come Carmen nelle fiere di paese, girando con altri come me che, pur di non farsi tritare l’anima da un call center a 6€ l’ora, preferivano mettersi in bocca petrolio e sputare una fiammata per far divertire i bambini, dribblando sia gli ubriachi sia chi, sbagliando, pensava che io fossi disponibile a fare anche altro per quattro lire e una cena.

Il problema, vede, è che io so come è finita.

E’ finita che mia nonna a 19 anni, stufa di sbattersi di qua e di là, fra borsa nera, lavori stagionali, filanda e sigarette, si è sposata, convinta della cosa fino ad un certo punto, con un ricco intendente che aveva oltre il doppio dei suoi anni, cioè il nonno di cui parlo in Pusè i studien pusè i diventen scemi, e nella fattoria in cui è entrata come signora ha potuto accogliere la madre, che di lì a poco sarebbe morta per un brutto male, e il fratello minore, che è vissuto fino a pochi anni fa.

La figlia maggiore, mia zia, si era sposata invece completamente convinta e per puro amore, ma è andata male anche a lei: dopo un’infanzia così accidentata, ha passato anni in sanatorio, e infine è  morta, prestissimo e molto rimpianta.

Sapendo come è finita, le dicevo, presidente, io appena ho potuto ho fatto un concorso, preparandolo di notte e lavorando di giorno, l’ho vinto e preso un discreto posto fisso sotto lo Stato, con malattia e ferie pagate.

Soprattutto malattia: perché mi creda, i danni che si fanno minando il fisico di una generazione si riverberano per le successive due o tre, ma questo voi non lo saprete mai.

In fede, M.H.

* raccattava su i suoi quattro stracci
** il limite minimo era 14, ma …
*** statemi a sentire: dove si mangia in quattro, si mangia anche in cinque