Recensione di Sick of Myself, il film di Kristoffer Borgli solo al cinema dal 5 ottobre 2023.
SCHEDA DEL FILM
REGIA: Kristoffer Borgli
CAST: Eirik Sæther, Kristine Kujath Thorp, Fanny Vaager, Sarah Francesca Brænne
DURATA: 97 minuti
USCITA: 5 ottobre 2023
DISTRIBUZIONE: Wanted Cinema
RECENSIONE
Signe e Thomas vivono una relazione malsana, in costante competizione tra loro. Il tutto si incrina ancora di più quando Thomas inizia ad affermarsi come artista contemporaneo. In tutta risposta, Signe si lancia in un disperato tentativo di attirare l’attenzione su di sé, anche a costo della sua salute.
È il film più spiazzante dell’anno, quello distribuito in Italia da Wanted Cinema – casa di distribuzione che va a caccia di film “ricercati” e sempre di qualità – e diretto da Kristoffer Borgli: storia d’amore anti-romantica, “favola” nera con protagonisti due anti-eroi malati letteralmente di se stessi, un’opera anti-lieto fine che non fa sconti a nessuno e obbliga lo spettatore a una riflessione tanto sulla società quanto sul proprio modo di vivere e relazionarsi agli altri.
Opera spietata, presentata in concorso nella sezione Un Certain Regard all’ultimo Festival del cinema di Cannes, Sick of Myself è un body horror cinico, sarcastico, crudo.
Malati di like, del vedersi riflessi non solo allo specchio ma soprattutto negli occhi dell’altro, che diventa oggetto utile per incrementare il proprio ego e dar da mangiare alle proprie insicurezze e al bisogno di sentire che in qualche modo anche noi esistiamo: non siamo più fatti di sostanza, ma siamo diventati aria fritta, mitomania, come il “guappo di cartone”.
La coppia al centro del film è formata da due persone che invece che supportarsi si ostacolano, invece che essere felici l’uno per il successo dell’altra si invidiano, invece che amarsi si calpestano.
Lui, “artista” (le virgolette sono d’obbligo), e lei, lavora in un bar. Entrambi innamorati di loro stessi e non del/della partner, stanno insieme per farsi la guerra e competere su chi la spara più grossa e chi riesce a farsi notare di più. E che tu sia un artista o una barista c’è poca differenza. Lui è un artista del nulla cosmico, è il click delle foto scattate che appariranno sulle riviste più di moda a interessargli, non il fare arte per aprire una finestra sul mondo o dire qualcosa di importante. D’altronde la sua forma d’arte consiste nel “rivisitare” cose rubate, appunto perché non si inventa proprio niente, non scava dentro se stesso alla ricerca di una qualche verità: ruba agli altri per arricchire se stesso. Lei è una “signorina nessuno”, non ha uno scopo nella vita, un interesse, ma d’altronde nel film nessuno legge un libro, o guarda un film, o insegue un sogno. Si esce a cena, si esce a bere, si organizzano set fotografici e si ruba.
La cleptomania del fidanzato di Signe (a cui anche lei si presta senza alcun problema) è una fuga dalla noia, dalla quotidianità, una fonte inesauribile di quella adrenalina di cui abbiamo bisogno per sentirci vivi. Senza siamo depressi e falliti, morti dentro come cadaveri, zombie che camminano per la città macchiati di sangue. E il sangue è il nostro, è il prezzo da pagare, perché come diceva qualcuno – più o meno – se vuoi apparire, devi soffrire, e investire nell’interiorità è troppo faticoso.
Lo scopriranno entrambi i protagonisti di Sick of Myself, quando la posta in gioco si alzerà fino al punto di non ritorno finale: che non è tanto stare fisicamente male o finire in carcere. Il dramma vero, la tragedia profonda, è essere scoperti, essere smascherati. Perché il narcisismo sopravvive fino a quando si può stare sul palco sotto ai riflettori, ma una volta calato il sipario e svelato il trucco, (o fatto il misfatto, come dicono nel wizarding world), il gioco è finito, game over. Tutto il film infatti alterna – magistralmente – sequenze reali con sequenze di immaginazione di Signe, la quale continua ad immaginarsi e fantasticare – con vero e proprio orrore – sul momento in cui verrà scoperta. Principio di delirio, distaccamento dalla realtà e dissociazione: da ogni lato proviamo a guardarla, comunque stiamo parlando di qualcosa di patologico, anche se sono in pochi a volerlo riconoscere.
Il vittimismo è al centro di tutti racconti di Signe: è ossessionata dal porsi al centro dell’attenzione e dal suscitare un sentimento di compassione in chi ascolta.
Il dark humor tipico dei film realizzati nell’Europa del Nord qui tocca livelli estremi perché dall’autore del film non c’è un minimo di empatia verso la sua protagonista, ed è molto beffarda come cosa, se ci pensate: lei che voleva a tutti i costi che le persone provassero compassione per la sua sfortunata vita, non la otterrà proprio da colui che l’ha creata, l’autore della storia.
Sick of Myself alla fine è un horror a tutti gli effetti, un horror perché riflette in modo lucido sull’attualità e ci pone di fronte all’orrore della vita, della società e delle relazioni umane, ma soprattutto all’orrore che abbiamo dentro.
Margherita Giusti Hazon
TRAILER UFFICIALE
Foto: ufficio stampa Wanted Cinema.
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.
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