A MACHINE TO LIVE IN: quando la costruzione di una città è la materializzazione di un’utopia (forse)

Recensione di A MACHINE TO LIVE IN, il documentario presentato al festival Visions du Réel 2020.

La locandina del film A MACHINE TO LIVE IN

Qual è la storia e la bellezza di Brasilia? Quali sono le credenze, le illusioni e il bagaglio di speranze e superstizioni che la capitale brasiliana custodisce?

A Machine to Live in, il documentario di Yoni Goldstein e Meredith Zielke presentato al festival Visons du Réel di Nyon (17 aprile – 2 maggio), cerca di darci qualche risposta. Soprattutto ci narra una storia caricandola di emozioni. Un po’ video-arte, un po’ trip, un po’ poesia, arricchito dalla lettura di brani della scrittrice Clarice Lispector e dell’architetto Oscar Niemeyer (autore della maggior parte degli edifici pubblici), il film dei pluripremiati artisti è un viaggio inatteso in una parte di mondo che mai come nelle ultime settimane di quarantena sentiamo lontana.

Plaza Congress nel film A MACHINE TO LIVE IN.

La città del futuro passato.

Brasilia è una metropoli molto particolare. Pianificata a tavolino, eretta in soli 4 anni, anzi in 41 mesi, a partire dal 1956, ed inaugurata il 21 aprile 1960. Come voleva la Costituzione, divenne subito sede del governo federale e capitale al posto di Rio de Janeiro. E tanto ieri quanto oggi spicca per la sua architettura sinuosa e chiarissima, non a caso ha il soprannome di città “senza ombre” e “senza spigoli”, sebbene spesso e volentieri le forme dei suoi edifici riprendano e giochino con le geometrie dei triangoli.

Il meticoloso progetto di Lucio Costa si basava sulle teorie di Le Corbusier. E la sua concretizzazione è quanto mai affascinante. Architetture mastodontiche, dalle linee morbide, che creano uno skyline a tratti surreale, quasi fossimo dentro un film di fantascienza, particolarità che alimenta vieppiù l’idea di metropoli del futuro e, al contempo, le credenze di talune comunità locali. Ambivalenza su cui il lungometraggio di Golstein e Zielke ruota per tutti i suoi 87 minuti di durata e che finisce per offrici un viaggio tra spazio (reale) e trascendente, tra i ricordi, i miti e i sogni.

Un’immagine del film A MACHINE TO LIVE IN.

A Machine to Live in ci regala meravigliose inquadrature e spettacolari visioni aeree delle costruzioni, così come ci fa conoscere persone convinte di vivere immerse in “uno scherzo realizzato senza errore” o altre persuase di essere extraterrestri che si reincarnano ancora e ancora sempre tra loro (o qualcosa di simile). Se vogliamo, è un’esplorazione delle conseguenze della concretizzazione di un’utopia.

Il risultato è un’opera che grazie alla sua fotografia sa ammaliare gli estimatori dell’architettura del Novecento e i curiosi cronici. La messa in scena è accurata, ricercata, perfetta per l’esigente pubblico cinéphile che popola i festival. Probabilmente, avrebbe potuto sfruttare oltre ai suoni anche diverse canzoni per amplificare l’atmosfera di alcuni passaggi. Così come una manciata di minuti in meno avrebbe reso questo lavoro ancora più particolare.

L’edizione 2020 di Visions du Réel si è tenuta completamente online quindi non sapremo mai quali sarebbero state le reazioni delle persone in sala. Rimaniamo però convinti che se non avete mai visto Brasilia, A Machine to Live in potrebbe essere l’occasione che andavate cercando per un approccio non convenzionale con la città che dal 1987 è Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO quale simbolo dell’urbanismo del XX secolo.

Vissia Menza 


TRAILER UFFICIALE

 

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