Quattro chiacchiere con uno dei vincitori del BFI Future Film Festival: Francesco Puppini, premiato col BFI Future Film Lab Award per il suo corto Virginia.
Tra il 20 e il 23 febbraio a Londra si è tenuto il BFI Future Film Festival, ossia un festival pensato appositamente per i cineasti di età compresa fra 16 e 25 anni. Interamente svoltosi nella magnifica e storica sede del British Film Institute, esso ha fatto luce su 50 corti provenienti da quasi ogni parte del mondo.
Tra gli eventi previsti dal suo calendario non sono mancate però anche masterclass, talks, approfondimenti incentrati sui temi dello Storytelling, Business of Film e Career Ladders. Tra gli ospiti in programma ci sono stati Jessica Hausner, regista di Little Joe; Charlie Covell, sceneggiatrice di The End of the F*** World; i ragazzi della Black Dog Film, pionieri nel mondo dei video musicali e tanti altri.
In particolare, prima che il festival anche per quest’anno chiudesse i battenti, abbiamo avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con uno dei vincitori della sezione cortometraggi. Vediamo allora cosa ha da raccontarci il vincitore del BFI Future Film Lab Award, Francesco Puppini, sul suo corto Virginia!
Ciao Francesco, grazie di essere qui con MaSeDomani. Raccontaci un po’ di come è nato Virginia, lo possiamo considerare un film di diploma?
Ciao Alessandra, grazie a voi. Possiamo considerare Virginia a tutti gli effetti un film di diploma perché è nato durante il percorso fatto alla Northen Film School di Leeds. In particolare la sceneggiatura è stata scritta nel 2016 e presentata a un laboratorio del secondo anno, la produzione è stata poi completata al terzo.
Genesi lunga dunque ma adesso Virginia è in piena corsa festivaliera!
Sì, corsa che però sta per concludersi: il BFI Future Film è l’ultimo festival che vedrà il film. Avevo incrociato tutte le dita possibili perché il film fosse accettato. Il percorso dei cortometraggi è abbastanza complicato a livello distributivo, incontri tanti rifiuti, ma in questo caso è andato tutto bene. Non solo il film è stato selezionato tra i 50 cortometraggi in gara (su oltre 1900 candidature ndr), ma anche tra i 20 nominati ai premi. Virginia ha ricevuto 3 nomination: Best director, Best International short e Future Film Lab Award, vincendo quest’ultimo.
Congratulazioni, anche perché il discorso di premiazione è stato molto bello:
«Francesco Puppini in Virginia dimostra un’ambiziosa visione cinemotrafica e il risultato è un film ben riuscito e dalla grande abilità tecnica. Il film è pervaso da squisite immagini poetiche dal tono molto coeso e dal tocco distintivo. Virginia è precisamente eseguito e Francesco ha abilmente dato corpo a un concetto difficile»
Sì è stato molto soddisfacente ricevere questo riconoscimento, in particolare la cosa che mi piaciuta di più del commento è il fatto che parla di un “concept riuscito”. L’idea da cui partiva la sceneggiatura era mantenere nascosto il twist, il colpo di scena, fino alla fine del cortometraggio. Il fatto di esserci riusciti è un ottimo risultato, vuol dire che il film è arrivato.
Parliamo infatti un po’ della trama: la sinossi di Virginia in due parole?
É la storia di una medium che ripercorre alcune memorie del proprio passato insieme a suo figlio nell’arco di una notte. Siamo all’interno di questa stazione di servizio nello Yorkshire del Nord, dove alla fine Virginia riesce a rivelare a suo figlio, nonché a sé stessa in qualche modo, il suo segreto più grande, imparando a lasciare andare una memoria dolorosa e a tornare sui suoi passi.
Per il protagonismo femminile e il concetto di imparare a lasciare andare la memoria di una persona amata, mi viene subito in mente Vitalina Varela di Pedro Costa. Ma nel tuo caso il risultato è più poetico, sognante; l’intera storia in effetti sembra svilupparsi fuori dallo spazio e dal tempo, quasi in un non luogo. É l’effetto che cercavi?
Sì, l’idea della petrol station era proprio quella, volevo che fosse un luogo fuori dal tempo, un po’ fatiscente, sperduto nella campagna inglese. In realtà era un luogo di sosta per i soldati durante la guerra. Siamo partiti da ricerche su internet, poi un giorno siamo andati a visitare la campagna e abbiamo trovato questo posto davvero incantato, congelato nel tempo, dalla grande potenza visiva e capace di comunicare una sua storia senza troppe parole. Abbiamo girato lì qualche giorno e poi siamo passati alle scene d’interno nei teatri di posa. Rose McLaughlin, production designer e ora direttrice della fotografia, si è occupata di tutto.
Nessun ostacolo?
L’ostacolo più grande è stato quello del casting, perché ci siamo stati dietro parecchio tempo e abbiamo confermato la protagonista due settimane prima dello shoot, è stata una vera corsa contro il tempo. Le riprese sono durate sei giorni e si sono tradotte in un corto di 12 minuti.
E poi come hai impostato il lavoro, considerando anche la differenza di età e background dei protagonisti?
Dopo aver lavorato a lungo con studenti per me era importante provare a lavorare con qualcuno che non avesse la mia età. Il lavoro con i protagonisti è stato molto organico, abbiamo avuto poco tempo per provare insieme. Ci siamo trovati prima nel laboratorio della scuola a parlare della sceneggiatura e provare alcuni movimenti, gli ho mostrato gli storyboards, le foto delle location per farli immergere nell’universo, nell’atmosfera, del cortometraggio.
Loro sono stati molto ricettivi e si sono sempre sentiti molto coinvolti. Lidia Vitale è stata molto speciale, ci ha regalato delle performance pazzesche, fin dalle prime riprese aveva una forza magnetica per la telecamera che non avevo mai visto prima. Pedro Tamames è stato più riservato, silenzioso, ma molto comunicativo, anche lui era un bravissimo ascoltatore e capace di rendere efficacemente certe emozioni senza bisogno di spiegargliele.
Nel film giochi molto coi piani temporali. Come hai scelto di sviluppare questa idea coerentemente col breve tempo a disposizione?
L’idea del flashback era già in sceneggiatura, avevo pensato di inserirla per dare una dimensione più estesa e ampia alla narrazione, serviva ad approfondire le dinamiche dell’incidente alla stazione di benzina. Inoltre mi è stato detto da uno degli insegnanti, Andrew Piddington, docente di regia del III anno, che questi flashback davano una dimensione più poetica al corto. Quindi abbiamo molto insistito su questa cosa, i flashback sono quasi dei sogni. Tra i riferimenti cinematografici datici c’è infatti Rust and Bone, con Marion Cotillard e in concorso allo scorso festival di Cannes, che è la storia di un rapporto genitoriale e la scena d’apertura è un bellissimo flashback. Andrew lo voleva ancora più astratto però a me piaceva mantenere una nota di realismo, seppure alla fine risultasse qualcosa di sognante.
Sì, l’impressione finale è proprio quella di rivivere una dimensione un po’ altra, onirica, una sorta di vero “tempo della memoria”. Hai altri modelli a cui ti sei ispirato?
A livello registico il primo che mi viene in mente è Wong Kar-wai per l’atmosfera appunto sognante che spesso porta nei suoi film (2046, In the mood for love), mentre per quello che riguarda la narrazione un po’ Fincher per il discorso sul sovvertimento della realtà (vedi Fight Club). A livello musicale Moonlight di Barry Jenkins, che ha una delle colonne sonore più belle degli ultimi anni.
A proposito di sonorità, nel film i dialoghi sono ridotti all’essenziale. Potremmo quasi dire, con le parole di John Cage, che anche il loro silenzio è musica?
Volevo profondamente che questi personaggi trasmettessero qualcosa. La sceneggiatura suggeriva, attraverso queste immagini così poetiche, che ci fosse una poesia interna anche alla recitazione. La conseguenza è stata che, durante le prove, l’attrice mettesse a nostra disposizione una certa energia. Ha colto quello che di speciale c’era nella sceneggiatura e l’ha saputo esprimere in modo immediato.
La sinergia che si è creata tra i personaggi è poi la stessa che si è creata tra la crew, è stato proprio un lavoro corale. Con il compositore James Peter Moffat e la cantante Oriana Curls ci si è trovati a sviluppare quasi un sentimento comune, avevamo in mente gli stessi riferimenti, abbiamo lavorato molto bene insieme. La playlist dedicata al film nasceva su ispirazione di certe canzoni dei Baustelle, soprattutto l’album Fantasma, forse uno dei meno conosciuti ma dalla grande anima cinematografica, perché ispirato alle colonne sonore di Ennio Morricone. In particolare, Nessuno è una bellissima canzone che ha nutrito molto l’atmosfera di Virginia.
Dall’altra parte invece, c’è una frase che ritorna piuttosto spesso: « I’m not ten anymore » (it. « Non ho più dieci anni »). A cosa allude?
Voleva esprimere la maturità del ragazzo, che infatti a inizio del corto si sente ancora trattato come un bambino (la madre gli dice ancora di non fumare, lo esorta ad avvicinarsi, etc). Era interessante cercare di creare una idea di maturità attraverso una semplice battuta. Esprime anche il rapporto di fiducia che si instaura fra lui e la madre in quella determinata scena. Tra l’altro la cosa interessante è che la scena era stata improvvisata! La battuta era scritta, certo, ma la sua ripetizione è nata durante le prove. Abbiamo poi deciso di portarla sul set perché ci è piaciuta molto, era molto intensa.
Da De Niro in Taxi-Driver fino a Joaquin Phoenix in Joker la storia del cinema è piena di esempi in cui l’improvvisazione ha amplificato la magia dei film!
Assolutamente, sono quei momenti così delicati che è difficile portare in una sceneggiatura. Infatti quando ti chiedono “cerca di essere già visuale” o “cerca di approfondire il personaggio” è sempre molto complesso perché il lavoro della recitazione apre spesso spazi di approfondimento su cose che altrimenti in fase di scrittura rimarrebbero sempre un po’ vaghe. In particolare, quella battuta esprime tutta la fiducia che si viene a instaurare fra madre e figlio nel momento in cui lei impara a dirgli addio. E a chiedergli scusa. Infatti l’ultimo scambio di battute, «Will you forgive me?» – «Will you?», indica un po’ un ribaltamento nel rapporto fra i due perosnaggi, è il momento culmimante del loro perdono, con questa domanda si stanno finalmente dicendo addio.
Prima di dirci addio anche noi, parliamo un po’ di futuro: che significato ha il BFI Future Film Lab Award nella vita di un giovane cineasta?
É sicuramente un’ottima occasione per sviluppare un nuovo progetto, ne ho tanti. Il BFI mi metterà a disposizione un budget, un kit di strumenti e il supporto di alcuni professionisti dell’industria cinematografica inglese per la produzione di un nuovo cortometraggio. Si tratterà di scrivere una nuova sceneggiatura o di presentarne una già scritta e di darle la luce con il supporto della forse più grande istituzione del cinema inglese, il British Film Institute.
Quindi ci rivediamo qui il prossimo anno?
Certo, anche perché sarò qui a presentare il nuovo premio! Altrimenti [ride] al prossimo concerto dei Baustelle!
Alessandra del Forno
Amante del cinema documentario e di tutto ciò che riesca a sublimare in immagini la poeticità del quotidiano, Alessandra è una giovane laureata che vede in Wenders, Tarkovskij (e Aldo, Giovanni e Giacomo) la strada verso la felicità. La potete trovare ogni due lunedì del mese tra i cinefili del LatoB e tutte le altre sere tra gli studenti di documentario della Luchino Visconti a Milano.
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