Viaggio a Echo Spring. Storie di scrittori e alcolismo di Olivia Laing – Recensione libro

 L’affascinante e indissolubile legame che unisce personalità letterarie fuori dal comune alla dipendenza dall’alcool e il suo riflesso, in chiaroscuro, nelle opere, pensieri e parole di sei grandi scrittori americani.

La copertina del libro Viaggio a Echo Spring

Henry Chinaski, l’alter ego letterario di Charles Bukowski, amava ripetere che nell’atto del bere si dimenticano i dolori, si festeggiano le gioie e, se non succede niente, si beve per far succedere qualcosa.
Il poeta e scrittore statunitense, noto per il suo amore disinvolto e totalizzante per i liquori, è spiritualmente – ovvero, in spirito e con spirito – in ottima compagnia: Eugene O’Neill, William Faulkner, Patricia Highsmith, Truman Capote, Dylan Thomas, Marguerite Duras, Jack London, Elizabeth Bishop, Raymond Chandler, tutti grandi scrittori e tutti in rapporto stretto e vischioso con le bevande alcoliche.

«su sei americani che hanno vinto il premio Nobel per la Letteratura, quattro erano alcolisti. E circa la metà dei nostri scrittori alcolisti ha finito per suicidarsi».

Il triangolo amoroso e scorretto tra traumi infantili, alcool e scrittura è il fulcro di Viaggio a Echo Spring – storie di scrittori e alcolismo (Il Saggiatore edizioni, pagine 320). L’autrice Olivia Laing attraversa fisicamente e metaforicamente l’America dei luoghi descritti e amati di sei scrittori – Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, Tennessee Williams, John Berryman, Raymond Carver e John Cheever – tentando primariamente di scoprire in che modo l’alcool abitasse le loro opere e, secondariamente, cercando il personale riappacificarsi con la propria infanzia, pesantemente influenzata da un’alcolista in famiglia.

Un’appassionata e partecipe immersione dentro le loro esistenze, quelle strabilianti che affiorano dall’inchiostro e quelle più vivide e dolorose, conficcate come punteruoli nel ghiaccio dei loro alcolici bicchieri.

Il suggestivo titolo è estrapolato da un dialogo padre-figlio in La Gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams dove con Echo Spring, una nota marca di Bourbon, si indica per sineddoche il mobiletto dei liquori.
Il libro alterna gustosi e inediti racconti di vita artistica – chi non avrebbe voluto ubriacarsi con Hemingway e Fitzgerald, nei café della Parigi degli anni venti? – informazioni scientifiche sull’abuso di alcool e lunghe digressioni personali che, seppur venate di poetica verità, al confronto delle scie biografiche e letterarie di un così talentuoso gruppo di scrittori, rendono la lettura meno scorrevole pur non inficiando il bel lavoro di ricerca.

Per comprendere a pieno cosa si celi nella psicologia fantasmagorica di questi grandi autori, nascosti dietro al bere indefesso, Olivia Laing cita ottimamente Il nuotatore (1964) di John Cheever.

In questo racconto, la storia di un uomo benestante che decide di tornare a casa nuotando nelle numerose piscine dei vicini, non solo si concentrano i riflessi della dipendenza ma affiora la magnetica attrazione per l’acqua, intesa come il freudiano ritorno al grembo materno. L’elemento acquatico è un richiamo irresistibile anche negli scritti dei suoi colleghi di lettere e bevute: a volte come un sinistro presagio relazionale con la madre, a volte come il bisogno di abbandonarsi, lasciarsi cullare, in solitudine, senza peso.

Gli schemi psicologici e ambientali sembrano ripetersi con tragica costanza in tutto il cospicuo campionario artista/dipendenza: un padre debole o violento, spesso suicida; una madre oppressiva e castrante; la tenace distruzione e ricostruzione del proprio nucleo famigliare; l’andirivieni tra cliniche, alcolisti anonimi e spettacolari ricadute liquide. Le compulsioni irrazionali e il desiderio di scomparire dal mondo completano il quadro ma non spiegano l’attaccamento di disperata vitalità al difficile e logorante mestiere di scrivere, al quotidiano cortocircuito nell’affrontare i demoni interni da cui ci si libera solo ponendo parole su parole, in ordinate pagine.

«La sensazione è che ci fosse un legame nascosto tra le due strategie dello scrivere e del bere e che entrambe fossero legate al sentimento che qualcosa di prezioso fosse andato in pezzi e al desiderio di ricomporlo»

Impossibile resistere al ritmico suono della macchina da scrivere, agli infiniti bicchieri di whiskey che intensificano le sensazioni, all’insonnia malevola che rende disperatamente lucido il talento, al proprio cuore stretto in un nodo scorsoio fatto di costante paura del fallimento e pervicace quanto contraria esaltazione di sé.

Il tragico e il patetico si mescolano, così, al terrore della mediocrità e a quel furore interno e insaziabile che si placa solo con alcool. Già. L’alcool. Alcool come fragile rimedio ammazza – giganti. Alcool come un clic nella testa che arresta i pensieri fino all’agognato silenzio. E alcool come brillante veleno che nutre e svilisce l’anima senza soluzione di continuità. L’alcool che, nella scintilla che si sprigiona dal raro incontro tra inclinazione e genio, alimenta il fuoco del talento e, sacrificando il destino del suo abitante, restituisce al mondo tutta la bellezza, trasparente e torbida, del capolavoro letterario.

Silvia Levanti

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