La recensione di Beautiful Things, il sorprendente documentario di Giorgio Ferrero e Federico Biasin, dal 1° aprile al cinema.
Realizzato all’interno del progetto Biennale College Cinema 2017, il film di Ferrero e Biasin è sicuramente tra i risultati più interessanti dello scorso concorso veneziano. Difficilmente inquadrabile in quanto a genere, Beautiful Things non è tanto un documentario, quanto piuttosto – come scrivono i suoi stessi autori – «un viaggio sinfonico» all’interno del consumismo del mondo contemporaneo. È una complessa partitura in quattro atti sui processi e le storie dietro alcuni dei beni di consumo più diffusi nel nostro pianeta.
In partiolare, Van è un manutentore di pozzi petroliferi. Danilo è capo macchina su una nave cargo. Andrea è uno scienziato. Vito è il responsabile di un’immensa fossa di rifiuti in cemento armato. Abituati a lavorare in condizioni di semi-isolamento, i quattro protagonisti sembrano quasi dei «monaci all’interno di templi d’acciaio e di cemento». Dei rigorosi e gelosi custodi di una liturgia industriale destinata a ripetersi fedelmente nel silenzio, nella solitudine, negli anni.
Il loro lavoro è alla base di quel lungo processo di commercializzazione che porta un prodotto direttamente dal luogo (remoto) della sua produzione fino alle mensole delle nostre case. Da qui la scelta di saldare i titoli dei capitoli – Petrolio, Cargo, Metro, Cenere – a momenti più distesi d’intimità domestica. La macchina da presa di Ferrero e Biasin scorre infatti elegantemente dalla solitudine deserti del Texas fino ai ricordi accumulati nel tempo da Vittoria e Andrea. Una coppia venuta grande col mito «dei robottini, delle prime chat porno, dei peluche dell’Ikea». Ossia i miti di quella stessa generazione cui fan parte anche i registi del nostro film:
«Abbiamo cercato attraverso la nostra malinconia di raccontare l’urgenza di un ritorno al silenzio, la ricerca di un respiro libero dalla compressione della vita immolata al rumore. Questo è il nostro urlo che abbiamo cercato di tradurre in un canto».
Beautiful Things è stato scritto infatti proprio come un canto, una sinfonia, un’immagine musicale. L’esperienza compositiva di Ferrero (mentre, fra l’altro, di alcune installazioni esposte al Museo del Novecento di Milano) è riuscita a dar vita a un’opera di grande genio e raffinatezza cinematografica. Un trionfo di immagine, parola e suono per un linguaggio che parla dritto al cuore, gli occhi e alle orecchie dello spettatore. Le vite lontanissime dei protagonisti del film finiscono così per saldarsi tacitamente alle nostre; anzi, ne sono in qualche modo parte attiva, motrice. Il risultato sono 94 minuti di estetica pura, vibrante e visionaria – tanto nella forma quanto nella sostanza – che, come una trivella, affonda nelle radici del consumismo e, con garbo, le riporta a galla.
Alessandra del Forno
Amante del cinema documentario e di tutto ciò che riesca a sublimare in immagini la poeticità del quotidiano, Alessandra è una giovane laureata che vede in Wenders, Tarkovskij (e Aldo, Giovanni e Giacomo) la strada verso la felicità. La potete trovare ogni due lunedì del mese tra i cinefili del LatoB e tutte le altre sere tra gli studenti di documentario della Luchino Visconti a Milano.
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