La recensione di Captive State, il film diretto da Rupert Wyatt al cinema dal 28 marzo 2019.
Terra, anno 2025 circa. In una Chicago distrutta e irriconoscibile, gli umani non sono più padroni del loro pianeta ma sono assoggettati alle forze aliene che hanno preso il comando.
I Legislatori, così vengono chiamati, non solo sfruttano tutte le risorse naturali, ma esercitano il controllo di ogni singolo individuo. Grazie a delle cimici, inserite nel corpo, e ad un sofisticato programma di monitoraggio a cui non sfugge nulla. Nessun movimento, nessuna conversazione, nessuna intenzione è possibile senza essere intercettata da tale sorta di Grande Fratello.
L’essere sempre riconoscibili e tracciabili ha, ovviamente, lo scopo di reprimere sul nascere qualunque forma di rivolta nei confronti del potere centrale. Ma, si sa, la razza umana è dura a morire. E quando c’è oppressione, anche se sembra impossibile, l’istinto di lottare per la propria libertà prende il sopravvento.
E questo è esattamente ciò che accadrà. Dopo un primo tentativo di ribellione, conclusosi con l’annientamento di chi voleva ribaltare l’ordine delle cose, una nuova cellula di insospettabili, progetta la distruzione del sistema centrale di controllo. L’occasione sarà data da un grosso evento sportivo, a cui concederanno l’onore della loro presenza proprio i nuovi padroni.
Il cineasta Rupert Wyatt, già regista de L’alba del pianeta delle scimmie e The Escapist, riesce a confezionare una storia che riunisce in se aspetti di diversi generi cinematografici. Possiamo, infatti, parlare di Captive State come di un film distopico, vista la realtà post apocalittica che descrive – con un’umanità in schiavitù e costretta a vivere, o meglio, sopravvivere, nei bassifondi. Allo stesso tempo non manca la fantascienza condita da un bel po’ d’azione. Ma forse l’aspetto che salta all’occhio è quello della denuncia.
La sceneggiatura è incentrata proprio sulla condizione che gli uomini vivono in uno Stato autoritario che limita (o, in questo caso, azzera) le libertà individuali.
La trama richiama chiaramente i regimi dittatoriali che purtroppo non sono frutto di fantasie. Si pensi all’Unione Sovietica, alla Germania nazista e, attualmente, alla Corea del Nord coi loro dittatori ed un popolo soggiogato da una visione totalitaria e neutralizzante.
In quest’ottica le scene più disturbanti non sono quelle in cui gli effetti speciali la fanno da padrone. Ma quelle in cui uno stadio pieno di gente si prepara ad accogliere la visita dei propri padroni. Con un agghiacciante tripudio di standig ovation, bande marcianti, inni cantati dal vivo e discorsi d’elogio pieni di gratitudine per la nuova “pace universale” portata da chi è giunto da lontano per ricondurre sulla retta via le “pecorelle smarrite”.
I richiami ad una forza superiore che controlla ogni azione non si fermano però qui. Nel seguire le gesta di una cellula di ribelli, tale “Fenice”, e i suoi stratagemmi per comunicare eludendo i controlli, non si può non pensare alla trilogia di Matrix e alla linea telefonica come unico mezzo per passare al mondo reale.
Per quanto riguarda gli attori spiccano John Goodman nel ruolo dell’agente William Mulligan, combattuto tra la lealtà all’ex collega, morto per mano degli alieni, e il suo ruolo istituzionale al servizio del nemico. La bella e brava Vera Farmiga nei panni di una prostituta che nasconde più di quanto faccia trasparire. E i giovani Ashton Sanders e Jonathan Majors, quali fratelli ribelli pronti alla rivoluzione. Nell’insieme il cast è ben assemblato, per nulla patinato che fa dell’essere grezzi e decisi la sua caratteristica principale.
Captive State è un film ben confezionato e che tiene col fiato sospeso dal primo all’ultimo minuto.
Una sceneggiatura che si rivela poco a poco fino ai colpi di scena finali è sicuramente il punto forte della pellicola. Se si aggiunge che la fotografia, con i suoi toni plumbei, rende ancora più soffocante il quadro, non manca niente per godersi due ore che non deludono mai, anzi, che lasciano presagire a nuovi capitoli.
Anna Falciasecca
Bionda, sarcastica, appassionata di regia e di viaggi cerca di unire le sue passioni scrivendo un blog di viaggi, sceneggiature (che stanno comode nei cassetti) e recensioni. Il suo motto è “Blond is a state of mind”, modifica continuamente idea e tiene i piedi in diverse scarpe, tutte rigorosamente tacco 12. Le uniche cose che non cambierà mai sono: Woody Allen e Star Trek, di cui è incallita fan.
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