LA CASA DI JACK: ritratto (d’autore) di un serial killer

Recensione de La Casa di Jack, il film di Lars Von Trier con protagonista Matt Dillon al cinema dal 28 febbraio 2019.

La locandina italiana del film La Casa di Jack (The House That Jack Built)

C’è chi dice che il mondo sia diviso tra le persone da gatto e quelle da cane, o tra quelle da Londra e quelle da Parigi. Cazzate.
Il mondo, almeno quello cinefilo, si divide tra quelli che considerano Lars Von Trier un genio e quelli che si sbagliano.

Lui torna a Cannes con La Casa Di Jack sette anni dopo la scomunica e l’etichetta di “persona non gradita”, là dove ancor prima (nel 2009, alla conferenza stampa per Antichrist) sostenne di non dover giustificare i suoi controversi film, anche perché “sono il miglior regista del mondo”.

Non so se il danese ex dogmatico lo sia, ma sicuramente i suoi detrattori hanno sempre affilato e scagliato le motivazioni meno intelligenti e fondate.

Se, come disse Catherine Breillat, un regista deve scalare le montagne e non accontentarsi delle colline, Von Trier è ancora uno dei migliori alpinisti e il suo ultimo film una gloriosa, biblica escursione fino ai ghiacciai della psiche.

Matt Dillon in una scena del film La Casa di Jack – Photo by Zentropa / Christian Geisnaes

Il ritratto del serial killer Jack (Matt Dillon, nel ruolo della vita), in cinque rigidi atti, è una delle analisi criminali più profonde e creative a memoria cinematografica. Nel racconto degli “incidenti” selezionati e narrati dallo stesso Jack al misterioso confessore Verge (il fresco compianto Bruno Ganz) sono disseminate teorie, riflessioni e deliri di una mente che si approssima alla deriva definitiva.

E’ l’ambiguo “liberi tutti” del regista, che dando l’inoppugnabile parola al suo protagonista meravigliosamente sardonico, si mette al sicuro da facili perbenismi e ipocrisie.
Si va dalle implicazioni di un disturbo ossessivo-compulsivo alle debolezze narcisistiche, dalle costruzioni delle cattedrali al ruolo delle rovine e delle icone, passando per la sostanziale differenza tra architetto e ingegnere nel simbolico (e non) progetto di Jack di costruire la sua casa dei sogni.

Matt Dillon in una scena del film La Casa di Jack – Photo by Zentropa / Christian Geisnaes

Von Trier ne ha per chiunque, è in stato di grazia e ha imparato come dribblare il passo falso (o così dicono) e le gratuità di Nymphomaniac. Il risultato non può che essere un delirante, scenografico affresco della mente di un atroce assassino, come se Henry – Pioggia Di Sangue, Taxi Driver e American Psycho si fondessero in un mostro tentacolare, ma di chirurgica lucidità.

La Casa Di Jack (tagliuzzato leggermente) è un film estremo, irriguardoso e sadico, che profana tutto con la sensazione che se lo possa sempre e comunque permettere. Se pensate che nel cinema siano difetti, non proseguite con la lettura. Altrimenti, condensate il tutto con il geniale substrato multidisciplinare del racconto e avrete il risultato colossale.

La gemma è l’episodio a tema venatorio, tremendo come l’abissale natura umana, che sarebbe un esemplare manifesto per intavolare (e giustificare) l’estinzione della specie.
L’epilogo, invece, è un po’ come il rutto alla fine della cena: estremamente sopra le righe, tutt’altro che raffinato, ma essenziale per ribadire il valore del pasto. E fare giustizia, mettendo ai rispettivi posti il bene e il male.

Luca Zanovello

 

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