La recensione di The Front Runner – Il vizio del potere, il film di Jason Reitman con Hugh Jackman, Vera Farmiga e J.K. Simmons, al cinema dal 21 febbraio 2019.
USA, 1988. Corsa per le presidenziali. Gary Hart è il candidato dei Democratici alla Casa Bianca e ha ottime probabilità di vittoria, forte del consenso popolare e dei sondaggi che lo danno col vento in poppa. Hart è una figura nuova, è un outsider, è un uomo che si differenzia da quel sistema che viene da anni di politica reaganiana, americano-centrica e con limitata visione sull’integrazione, l’ambiente, i giovani ed i rapporti internazionali. Tutto però cambia drasticamente il giorno in cui Hart viene travolto dalla notizia di una sua relazione extraconiugale. Episodio per lui inaccettabile e che lo convince ad abbandonare la corsa alla presidenza.
The Front Runner – Il vizio del potere è la nuova pellicola firmata da Jason Reitman, con protagonista Hugh Jackman, che segue non tanto l’ascesa quanto l’improvvisa caduta del senatore Hart. Seppur riservato, l’uomo era carismatico e con un fare casual. Era affascinato dalla tecnologia, sensibile alle necessità degli elettori più giovani e per questo considerato senza rivali. Nessuno aveva però calcolato la forza distruttiva dei tempi (e di una nazione) in rapida evoluzione. E la forza dell’opinione pubblica, una volta a conoscenza della vita privata del proprio candidato.
“Anche se alcune cose sono interessanti, questo non le rende importanti” (Gary Hart)
La particolarità del lungometraggio è che non si chiede se la notizia fosse vera o falsa né se il Senatore fosse un eroe o un traditore, bensì pone lo spettatore al centro della scena, lo circonda da una miriade di punti di vista, di reazioni più o meno indignate, e lascia a lui decidere cosa sia importante. Per fare ciò il regista si affida ad un cast all stars (oltre Jackman troviamo Vera Farmiga, J.K. Simmons e Alfred Molina); alla macchina da presa (non disdegna la camera a mano); a dialoghi e dettagli fedeli alla realtà. E – cercando di mai giudicare – mostra l’impatto della news sullo staff di Hart, sul giornalismo e sulla società.
Non a caso il film è stato vissuto da Reitman come un’opportunità di fare cronaca, di raccontare con cura quanto accaduto in quelle settimane di trent’anni fa. Il regista, da sempre interessato al dietro le quinte della vita americana, qui pone l’attenzione sul ruolo della stampa e dei giornalisti. E si/ci domanda sino a dove possa spingersi il dovere di cronaca se ad essere sotto i riflettori è un politico e non un personaggio dello show business. E quando sia diritto dell’elettorato conoscere i comportamenti in ambito privato di chi dovrebbe essere giudicato solo per il suo operato pubblico.
Domande che obiettivamente suonano assai attuali…
Quegli anni hanno fatto da spartiacque tra il passato e il presente, un presente in cui si stavano ridisegnando i confini tra politica e spettacolo. In TV apparivano i primi programmi di gossip, i reporter scoprivano i telefoni satellitari e la CNN sperimentava avveniristici furgoni dotati di parabole sul tetto. L’informazione aveva nuovi mezzi e poteva raggiungere vette prima inavvicinabili. E in un simile scenario dirompente, per certi versi assimilabile all’odierno, diventa importante riflettere sul ruolo dei media; sul “comportamento corretto” delle persone al potere; sul nostro diritto di conoscere la sfera privata altrui.
Nonostante quello che si possa credere, The Front Runner è tutt’altro che cupo e opprimente, è vibrante e il dramma personale va a braccetto con la leggerezza. Leggerezza data dal velo d’ironia necessario se si vuole raffigurare realisticamente un mondo, quello delle campagne elettorali, in cui la lingua tagliente e lo spirito d’osservazione sono requisiti imprescindibili. E la conferma arriva dalle stesse pagine del libro su cui si basa la sceneggiatura, All the Truth Is Out: The Week Politics Went Tabloid, del giornalista Matt Bai che per anni è stato corrispondente politico.
In un paio di ore scarse (il film dura 113 minuti), l’opera ci dimostra una volta ancora la bravura di Reitman nel porre domande rimanendo esterno alla discussione. Per contro, tale modo di procedere può essere percepito come elusivo del nocciolo della questione. Sebbene la passione di Jackman per il suo personaggio sia palpabile (alcuni hanno azzardato si tratti di una delle migliori performance della sua carriera), e la ricostruzione del 1988 sia minuziosa, una volta usciti dal cinema ci rendiamo conto che la storia non ci è entrata sotto pelle come avrebbe potuto, quando si parla di moralità. E così facendo rischia di essere dimenticata presto.
Di fatto, le battute frizzanti e la curiosità di conoscere meglio l’uomo che avrebbe potuto prendere il posto di George Bush ci tengono sull’attenti. Anche se alla fine ci accorgiamo di sapere di più su chi gli gravitava intorno che su di lui. Tanto si dice fosse schivo nella realtà, quanto Reitman lo è stato nel ricrearlo su grande schermo. Sia chiaro, The Front Runner è una piacevole visione. Ma se ci chiedessero un consiglio, allora suggeriremmo di evitare d’inseguire una profondità laddove potrebbe non esserci.
Anna Falciasecca & Vissia Menza
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