Una piccola retrospettiva sui documentari di 3 registe che han animato la Berlinale nella sezione Panorama 40: Prune Nourry, Greta Schiller e Marion Scemama.
Ci siamo, la 69ma edizione della Berlinale è quasi giunta al termine e molti sono i film che faranno parlare di sé. In attesa di scoprire i vincitori ufficiali, lanceremo ora uno sguardo trasversale anche su un’altra sezione del concorso, Panorama. Forse più in ombra rispetto alla competition ufficiale, ma non per questo meno importante, Panorama festeggia quest’anno il suo 40mo anniversario. Per celebrarlo, i curatori Wieland Speck e Andreas Struck hanno pensato a un programma che rispecchiasse l’animo innovativo, controverso, provocatorio di questa sezione nei suoi 40 anni d’attività. Il tutto per un totale di 13 feature film e 11 cortometraggi racchiusi sotto il nome di Panorama 40.
La sezione si affianca a quella ufficiale di Panorama, ricca di ben 45 film, di cui 15 documentari. Di seguito troverete tre opere di queste sezioni forse poco chiacchierate ma molto valide per intenti e risultati conseguiti. Si tratta di tre documentari realizzati da registe donne, provenienti da diverse parti del mondo, ma molto vicini per modalità linguistiche adottate. Sono infatti tutti e tre film realizzati attraverso la prassi del found-footage, ossia il montaggio di vario materiale d’archivio per un risultato più vicino a quello del cine-saggio che del classico documentario d’autore. La visione che ne consegue è così solida, approfondita, capace di spaziare nello spazio e nel tempo attraverso testimonianze uniche e soggetti eclettici.
Serendipity, Prune Nourry, 74′
Prune Nourry è una poliedrica artista francese sopravvissuta a un tumore al seno. Il materiale video da lei collezionato in diversi anni d’attività e di cura ha dato vita a questo originale documentario sul rapporto fra arte e malattia. Serendipity è un patchwork composto dai materiali più disparati: animazione, documentario, finzione. La scelta di miscelare la prospettiva artistica con quella del paziente in cura garantisce un risultato di forte impatto emotivo. In particolare è interessante notare come alcuni concetti vengano trasfigurati metaforicamente attreverso le immagini per un effetto, almeno nella prima parte, di grande straniamento nello spettatore. Giocando con le aspettative di chi guarda e col ritmo della stessa narrazione (ora più accelerato, ora più disteso), Prune Nourry ci consegna un documentario molto intimo e personale, pesante e leggero al tempo stesso. Sicuramente in grado di trasmettere un messaggio forte e positivo nella lotta al cancro e di dare visibilità a un’arte nobile ma poco conosciuta, quella del modellatore d’argilla.
The Man Who Drove With Mandela, Greta Schiller, 80′
Greta Schiller torna quest’anno in Berlinale con un documentario che ha appena compiuto vent’anni. Realizzato nel 1998, The Man Who Drove With Mandela è la ricostruzione in 80 minuti di una personalità sfaccettata e fuori dal comune, quella di Cecil Williams. Quasi leggenda sudafricana, Cecil Williams è stato regista, sceneneggiatore, attivista politico per i diritti degli omosessuali e comunista militante schierato contro l’apartheid. In particolare è stato quel “ricco uomo bianco” grazie al quale Nelson mandela potè, almeno per un breve periodo, viaggiare in Sud Africa sotto copertura. Nel 1962 infatti la sua copertura da chauffeur fu smascherata e il tribunale condannò lui all’ergastolo e Williams a 5 anni di arresti domiciliari. Il documentario di Greta Schiller parte proprio da qui, dalla crisi dell’apartheid, per restituirci poi in realtà la personalità vivace e appassionata del suo protagonista. Il sapiente uso di materiali d’archivio e di monologhi teatrali (interpretati da Corin Redgrave) fa di questo documentario un film molto maturo e affascinante. Un’opera capace di conquistare la simpatia di tutti e meritevole di portare alla ribalta una personalità di primo piano, che rischiava altrimenti di rimanere sullo sfondo.
Self-Portrait in 23 rounds: a Chapter in David Wojnarowicz’s Life, 1989-1991, Marion Scemana, ’78
Marion Scemana porta quest’anno in Berlinale il suo ultimo recentissimo lavoro sulla vita e l’arte di David Wojnarowicz, figura chiave della scena artistica newyorkese negli anni ’80. Artista impegnato, pittore, scrittore, performer e fotografo, David Wojnarowicz muore a soli 37 anni per complicazioni dovute all’AIDS. Il documentario della Scemana è una commemorazione in forma di saggio di questo eccezionale personaggio, nonchè suo intimo amico. La documentazione attinge principalmente all’archivio privato della regista e dall’intervista che Sylvère Lotringer gli fece nel 1989 per una durata di 5 ore. Self-Portrait in 23 rounds narra la storia di un uomo che è stato in grado di sublimare la propria vulnerabilità in una forma artistica. In particolare, rivendica la potenza della parola in un momento storico in cui l’epidemia di AIDS era ancora un tabù per molti. David Wojnarowicz si racconta attraverso le immagini di questo intensissimo cine-saggio per ricordare l’influenza che l’arte e l’omosessualità hanno avuto sulla sua vita. La perizia nel montaggio e il carisma del suo protagonista rendono questo film un documentraio molto ricco e commovente. Un lavoro inedito e profondo, legato alla mostra “David Wojnarowicz: Photography & Film 1978-1992” ora allestita presso il KW Institute for Contemporary Art di Berlino.
Alessandra del Forno
Amante del cinema documentario e di tutto ciò che riesca a sublimare in immagini la poeticità del quotidiano, Alessandra è una giovane laureata che vede in Wenders, Tarkovskij (e Aldo, Giovanni e Giacomo) la strada verso la felicità. La potete trovare ogni due lunedì del mese tra i cinefili del LatoB e tutte le altre sere tra gli studenti di documentario della Luchino Visconti a Milano.
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