Recensione di Tramonto (Napszállta), il film di László Nemes con Juli Jakab al cinema solo il 4 – 5 – 6 febbraio 2019.
Dopo Il figlio di Saul, opera prima di László Nemes che nel 2015 vinse il Grand Prix al Festival di Cannes e l’Oscar come Miglior film straniero, il regista ungherese con Tramonto prosegue la sua indagine umana attraverso un cinema che fa della soggettività estrema la sua fede.
Dal 1944 ad Auschwitz torniamo indietro al 1913 a Budapest. La giovane Irisz Leiter arriva nella capitale inseguendo il sogno di diventare modista nella leggendaria cappelleria appartenuta ai suoi genitori. Ma l’accoglienza sarà tutto fuorchè calorosa, e Irisz scoprirà presto di avere un fratello di cui non sapeva niente ma che si rivela l’unico legame con un passato ormai perduto.
Un film romanzesco fin dai titoli di testa, che subito svela le sue intenzioni, fin dalla prima battuta di dialogo: “Solleva questo velo”, dice una delle bellissime commesse della cappelleria Leiter a Irisz. Irisz dovrà sollevare il velo dell’inconsapevolezza per addentrarsi in un percorso che non potrà lasciarla indifferente.
Quella a cui assistiamo non è solo la storia personale di Irisz, ma è lo specchio della storia di una civiltà al tramonto, a ridosso della Prima Guerra Mondiale, uno scorcio sul finire della belle époque, dove apparentemente tutti stanno bene ma in realtà la distruzione è alle porte e niente sarà più come prima.
Proprio come ne Il figlio di Saul, di nuovo la macchina da presa del regista sta addosso al personaggio, lo segue, gli sta dietro, davanti, affianco, non se ne allontana mai. Questo crea un profondo legame col film precedente, quasi fosse un prequel, una vita che prosegue in un altro corpo, in un altro tempo, in un altro spazio. Entrambi i protagonisti sono silenziosi, riflessivi, sembrano poter leggere la mente delle persone, guardandosi dentro, scrutano il mondo esterno eppure non lo comprendono.
Irisz vive in mondo misterioso, che lei non comprende. Irisz si perde, ogni indizio è contraddittorio, le informazioni che le vengono date non sono mai complete, sono sempre mediate, vengono raccontate da altre persone o lette sui giornali.
Grazie a questo stile, noi assumiamo lo stesso punto di vista di Irisz: insieme a lei navighiamo nell’incertezza, e poichè non c’è alcuno scarto di informazioni, lo spettatore scopre le cose nello stesso momento in cui le scopre lei, quindi il livello di empatia è altissimo.
Quello che Irisz attraversa è un percorso labirintico, estremamente intimo, sembra di sentire il suo respiro addosso, e il fatto che lei venga emarginata da tutto e da tutti a causa di un passato di cui lei non sa niente, rende la nostra partecipazione emotiva nei suoi confronti ancora più intensa.
E questo viaggio intricato e introspettivo nell’oscurità, nel proprio passato e nelle colpe della propria famiglia che in qualche modo inevitabilmente si ereditano, non potrà non avere delle conseguenza: Irisz nel suo misterioso percorso di formazione cambia dentro ma anche fuori, da donna algida, elegante e imperscrutabile si fa sempre più turbata nei lineamenti, nelle occhiaie, anche nel modo di camminare.
Il suono gioca un ruolo fondamentale in questa “strategia di immersione” – proprio come ne Il figlio di Saul – lingue diverse si sommano ai rumori della strada, delle carrozze, degli spari, delle minacce, delle richieste, in un turbinio di angoscia crescente.
Quello di Nemes non è un cinema che rassicura lo spettatore, lo mette a suo agio e gli dice “goditi lo spettacolo”. Siamo di fronte a un’esperienza di soggettività, fragilità umana e incertezza dove la mente dello spettatore è in continuo movimento, si ritrova a dubitare di tutto e tutti aderendo perfettamente alle sensazioni e al punto di vista della protagonista. Un cinema di sottrazione, dove “meno è più”.
Il piano sequenza finale, forse una citazione di Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick, rimarrà senza alcun dubbio nella memoria di tutti, a ricordarci che il mondo e le sue regole saranno sempre un mistero. Noi possiamo interpretarlo come vogliamo: esso rimarrà sempre insensato.
Margherita Giusti Hazon
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.