La recensione de Il primo Re, il nuovo film di Matteo Rovere con Alessio Lapice e Alessandro Borghi nei panni di Romolo e Remo, dal 31 gennaio al cinema.
Dopo il successo di Veloce come il vento (2016), Matteo Rovere si lancia in una nuova ambiziosa sfida, quella legata al mito fondativo di Roma. Con un finanziamento di 9 milioni di euro e una coproduzione in sinergia fra Belgio e Italia, il suo Il primo Re è un prodotto atipico nell’orizzonte della cinematografia italiana. È un antipeplum – o meglio un ante-peplum – carico di sudore, sangue, fango, violenza, ricostruito con apparente rigore filologico.
La lingua parlata dai suoi protagonisti, su cui giganteggia Alessandro Borghi, è un protolatino ricostruito ex novo dai semiologi della Sapienza. La ricostruzione storica è frutto dello studio operato dai ricercatori e dagli archeologi di Tor Vergata. L’ambientazione incontaminata e selvaggia è lo scenario naturalmente offerto da alcune fra le migliori riserve del Lazio (Monti Simburini e Lucretili). Punto di partenza per Rovere è stata dunque la ricostruzione etnologicamente fedele della Roma del VII secolo a.C. La Roma di Romolo e Remo, quella per anni letta e rivissuta dalle narrazioni dei grandi storiografi latini come Livio e Plutarco.
Con gli sceneggiatori abbiamo quindi approfondito questa narrazione così antica, tentando di interrogarla, cercando gli elementi maggiormente ricorrenti: due fratelli gemelli, Albalonga, un tradimento, un cerchio sacro, un segno degli dei. Abbiamo studiato il racconto leggendario e il contesto, facendoci conquistare dallo strapotere della natura sulle esigenze umane.
Il risultato è un film che cerca di fare del mito una realtà consolidata e verosimile. Una realtà che per quasi 119 minuti non lascia scampo alla prevebile dialettica fra libero arbitrio umano e superstizione divina. E che chiede di essere inconvenzionalmente raccontata dalla parte non del vincitore, Romolo (un redivivo Alessio Lapice), bensì da quella del vinto, Remo (l’eroico Alessandro Borghi). L’amore fra i due fratelli, diversi ma uguali compagni di sventura, è la colonna portante di un film che fa quasi gibsonianamente della violenza l’unico vero motore della storia.
L’infinita serie di corpo-a-corpo che scandisce i segmenti della narrazione fa de Il primo Re un kolossal violento e brutale, un trionfo dell’epica barbara e primitiva. Un’epica che però non manca di strizzare l’occhio a una certa riflessione filosofica di fondo per cui l’individualismo sprofonda dinnanzi all’anima collettiva. E soprattutto l’hybris umana soccombe di fronte al disegno divino. Tutto fatto di formule e feticci pagani, il mistero della divinazione è qui affidato alla vestale Satnei (Tania Garriba). Una donna apparentemente in grado di maneggiare l’arte del fuoco sacro, dell’aruspicina e della maledizione. Ma anche lei, in fondo, vittima del disegno divino.
In questo mondo arcaico, fatto di eroi fatiscenti e vittime innocenti, s’impone però luminosissima una cosa: la fotografia di Daniele Ciprì. Sfruttando la luce naturale del set e le solide grafiche digitali, Il primo Re risulta se non altro un prodotto tecnicamente ben riuscito. E un film che, pur nel suo privilegiare la fascinazione sulla storia (non un cenno al segno augurale degli avvoltoi), rimane comunque un dramma orientato a modelli internazionali. Coerente, in fondo, per livelli di ambizione e cripticità a quelli della sua frase in esergo, «un dio che può essere compreso non è un dio». Lo trovate dal 31 gennaio al cinema!
Alessandra del Forno
Amante del cinema documentario e di tutto ciò che riesca a sublimare in immagini la poeticità del quotidiano, Alessandra è una giovane laureata che vede in Wenders, Tarkovskij (e Aldo, Giovanni e Giacomo) la strada verso la felicità. La potete trovare ogni due lunedì del mese tra i cinefili del LatoB e tutte le altre sere tra gli studenti di documentario della Luchino Visconti a Milano.
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