La recensione di Se La Strada Potesse Parlare, il film di Barry Jenkins con Regina King al cinema dal 24 gennaio 2019.

Se La Strada Potesse Parlare poster

La locandina italiana del film Se La Strada Potesse Parlare

Dopo l’incetta di Oscar con Moonlight (con l’indimenticabile equivoco in sede di premiazione vs La La Land), il regista Barry Jenkins dà seguito alla sua formula di dramma sociale e all’esplorazione di tormenti, grane e speranze delle minoranze nella società statunitense.
Lo fa adattando il romanzo Se La Strada Potesse Parlare di James Baldwin, figura leggendaria della letteratura afroamericana di anni sessanta e settanta, già ispiratore del recente I Am Not Your Negro (2016, Raoul Peck).

Jenkins abbandona la narrazione verticale di Moonlight per raccontare orizzontalmente la Harlem di inizio 70s e la storia d’amore tra Tish (KiKi Layne) e Fonny (Stephan James), entrambi afroamericani, in dribbling tra le discriminazioni razziali che complicano le mosse di vita più elementari. Con lei incinta e lui ingiustamente accusato di stupro ed arrestato, starà alle famiglie dei due cercare di ripristinare la verità, per le strade e le celle di una città in cui (dice Baldwin) “l’uomo bianco è il diavolo”.

una scena del film Se La Strada Potesse Parlare - Photo: courtesy of Lucky Red

una scena del film Se La Strada Potesse Parlare – Photo: courtesy of Lucky Red

L’incedere di Se La Strada Potesse Parlare è non lineare, saltella dall’oggi allo ieri della coppia protagonista e permette a Jenkins di mettere in scena più cose di cuore che di testa, trattando quell’argomento che muove le stelle nella cornice che muove le coscienze.
Romanticismo ed emancipazione si danno così il cinque e convergono in un film nobilmente ritratto ma pedantemente narrato, dimostrazione lampante che le buone intenzioni nel cinema sono necessarie ma non sufficienti.

C’è infatti qualche urticante sensazione, che va aggirata con non poco sforzo: su tutte, quella riguardante l’avidità speculativa della storia, che per dirci tutto il male del mondo, dai pregiudizi di strada a quelli in tribunale, dai poliziotti bianchissimi e con la faccia storta agli abusi di potere carcerario (fino a una parentesi sballata portoricana buttata lì come un avanzo di pizza), non ci imprime l’essenziale. O forse lo fa, ma con fatica contagiosa, con una pellicola assolutista e pure stranamente retorica.

una scena del film Se La Strada Potesse Parlare - Photo: courtesy of Lucky Red

una scena del film Se La Strada Potesse Parlare – Photo: courtesy of Lucky Red

Di bello c’è che Jenkins è tra i migliori arredatori del grande schermo, anche grazie alla fotografia di James Laxton, la stessa di Moonlight; e la vicenda di Tish e Fonny affonda le radici nell’archetipo tragico, l’imperituro cruccio dell’amore osteggiato (non dalle famiglie, ma da tutto il resto) e per questo può in teoria funzionare.

Ma se il nocciolo del film è l’ingiustizia, ci sono troppe divagazioni. Se è la forza dell’amore, il lavoraccio di Regina King (meritevole di Golden Globe e probabilmente di Academy Award) e di altri personaggi secondari non serve granché. E quando Se La Strada Potesse Parlare mi chiede cosa ho imparato, mi trova già in dormiveglia.

Luca Zanovello