Recensione di La douleur, il nuovo film di Emmanuel Finkiel con Mélanie Thierry adattato dal romanzo di Marguerite Duras, dal 17 gennaio al cinema.
Nella Francia collaborazionista del 1944 si consuma il dramma privato e collettivo di Marguerite, romanziera emergente e giovane militante nei gruppi della Resistenza parigina. Suo marito Robert Anselme è tra i deportati a quelli che, sotto Pètain, ancora non sono noti come «campi di sterminio». E il suo amico Dionys Mascolo è tra i pochi amici sopravvissuti a quella che, sempre più chiaramente, pare delinearsi come un’imboscata.
Il dramma di Emmanuel Finkiel parte proprio da qui, dagli anni in cui la Parigi di Vichy sembra un incubo popolato da fantasmi e traditori. Un incubo che, tra giornali e radiogiornali, non concede mai tregua alle speranze delle famiglie che aspettano a casa i loro prigionieri. E, anzi, sembra fagocitare invano il dolore della loro attesa. Il dramma di Marguerite si tinge così di colori universali, colori tristi e sciupati come i sentimenti che animavano le famiglie di quegli anni. E fra queste, anche quella del nostro regista.
Il punto di partenza è stato inevitabilmente la mia sperienza personale, anzi, quella di mio padre, che vide i propri genitori e suo fratello più piccolo, arrestati nel 1942, non tornare mai più. Per tantissimi anni, in modo del tutto irrazionale, li abbiamo aspettati. Un’attesa, la nostra, priva del minimo barlume di speranza. Aspettavamo per il solo gusto di aspettare: attesa e assenza erano i fulcri dell’avvenire.
La Douleur di Marguerite Duras – già penna sublime di Hiroshima mon amour – fa da splendido soggetto a questa storia di rabbia e rassegnazione. Storia riadattata principalmente da due racconti: quello che dà il titolo alla raccolta, La Douleur, e quello che tratta di un viscido collaborazionista, Rabier. Entrambi ambientati a ridosso della Liberazione: il primo nell’agosto del ’44 e il secondo durante le ultime settimane d’occupazione tedesca. La ferrea regia di Finkiel plasma questi momenti storici attraverso parole e immagini dall’estrema potenza emotiva. E il risultato é un profondo e straziante diario intimo, lungo la durata di 127 minuti.
Interpretata da un’eccezionale Mélanie Thierry, la Marguerite di Finkiel è una donna scissa fra il dolore della rassegnazione e il vigore della speranza. Una donna costretta a fare della propria sofferenza una rigogliosissima linfa vitale. E per questo portata a custodire quasi più il proprio tormento interiore che l’effettivo amore del marito. Il dolore si dilata sulla gamma dei sentimenti fino a divorarli tutti, fino a divenire persino un brutale surrogato dell’amore. Una bugia che Marguerite racconta a sè stessa. Da qui il gioco di sdoppiamenti e dissociazioni che, insieme a una super letteraria voice over, fanno di La Dueleur un film complesso e stratificato.
Dopo aver assistito alla regia professionisti del calbro di Tavernier, Kieslowski e Godard, Emmanuel Finkiel è sempre più in grado di porsi come un regista dal delicato ma forte impatto autoriale. Un autore che porta a maturazione temi già affrontati nel precedente Voyages e ora pronto a concorrere per la Francia agli Oscar. Per l’increbidile interpretazione della Thierry e per la patina letteraria alla Duras, assolutamente da vedere. Dal 17 gennaio al cinema!
Alessandra del Forno
Amante del cinema documentario e di tutto ciò che riesca a sublimare in immagini la poeticità del quotidiano, Alessandra è una giovane laureata che vede in Wenders, Tarkovskij (e Aldo, Giovanni e Giacomo) la strada verso la felicità. La potete trovare ogni due lunedì del mese tra i cinefili del LatoB e tutte le altre sere tra gli studenti di documentario della Luchino Visconti a Milano.
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