La recensione di City of lies, il film di Brad Furman con Johnny Depp e Forest Whitaker al cinema dal 10 gennaio 2019.
City of lies è il lungometraggio tratto da Labyrinth, il libro del giornalista Randall Sullivan uscito nel 2002 che cerca di fare luce sull’intricata vicenda degli omicidi dei due principali rapper USA di quegli anni, ovvero Tupac Shakur e Notorious B.I.G.
A chi non ha vissuto quell’epoca forse questi nomi non dicono molto. Chi si aggira intorno agli “anta”, invece, non può non ricordare le notizie sugli assassinii delle due famose icone rap. Omicidi rimasti ad oggi avvolti nel mistero.
Il film di Brad Furman prova a raccontare quei giorni attraverso gli occhi dell’ex detective della polizia di Los Angeles Russell Poole (realmente esistito e deceduto nel 2015), un uomo che ha passato praticamente la sua vita a cercare di risolvere questi due casi.
In un mix di reportage giornalistico e poliziesco, tra presente e passato, City of Lies si alterna tra i due generi per la quasi totalità delle due ore di durata. E, purtroppo, il risultato non è quello sperato: sotto più di un punto di vista l’opera non riesce ad essere convincente.
Partendo dalla trama, abbiamo un Johnny Depp invecchiato che interpreta l’integerrimo detective Poole, una vera mosca bianca all’interno di una LAPD nell’occhio del ciclone dalla fine degli anni 90 per corruzione e violenza. Dal momento in cui gli è stato assegnato il caso non si è mai dato pace inseguendo senza sosta la ricerca di una soluzione.
Insieme a lui troviamo Forest Whitaker nei panni di un giornalista che vive di rendita per l’effimero successo che ebbe tempo addietro un suo documentario. Con l’incontro tra i due si incontrano anche due solitudini e due personalità simili. La testardaggine nell’inseguire una chimera li ha portati a vivere in uno stato di alienazione rispetto alla società da cui non sembra intravvedersi una via d’uscita.
Nonostante due pezzi da novanta come protagonisti, anche le loro performance non si può dire siano incisive. I due attori sembrano recitare con il pilota automatico senza regalare molto del loro carisma, di per sé in grado di salvare almeno parte della pellicola.
La sceneggiatura, oltretutto, nel suo tentativo di alternare la cronaca di quegli anni al poliziesco, senza mai raggiungere lo scopo, manca di linearità ed incisività. Gli autori mettono troppa carne al fuoco e, senza una sostanziosa spiegazione di quanto accadde, lo spettatore finisce col perdersi abbastanza facilmente.
Ed è forse proprio il soggetto del film che, alla luce del risultato, si pone come principale indiziato per la mancata riuscita del progetto.
Il libro da cui è tratto, ovvero Labyrinth scritto dal giornalista di Rolling Stone Randall Sullivan, fa un’analisi del labirinto, appunto, di persone, eventi, luoghi, soldi e tradimenti in cui si pose quel doppio omicidio che scosse l’intero mondo musicale dell’epoca. Riprendere lo stesso tema, a distanza di un ventennio, senza riuscire a dare una forma e/o una vera identità a ciò che si ha in mano, gioca per forza a proprio sfavore.
City of lies vuole essere un po’ un documentario, un po’ un reportage ed un po’ un poliziesco vecchio stampo, di quelli con un protagonista – eroe maledetto, isolato dal mondo corrotto che lo circonda, ma fallisce nei suoi intenti.
A livello narrativo, manca oltretutto un parte che spieghi la rivalità tra East Coast e West Coast degli ambienti rap. Cosa nota a chi era adolescente e spettatore di MTV in quegli anni (me compresa), ma probabilmente sconosciuta a chi era troppo giovane oppure troppo in là con gli anni.
Coloro che, ricordando la fine di Tupac Shakur e Notorious B.I.G., dovessero avvicinarsi alla pellicola in cerca di risposte, o anche solo di un buon approfondimento, rimarranno sicuramente delusi. Gli altri invece si ritroveranno ad avere a che fare con una serie di eventi in ordine sparso senza, purtroppo, trovare il bandolo della matassa.
Anna Falciasecca
Bionda, sarcastica, appassionata di regia e di viaggi cerca di unire le sue passioni scrivendo un blog di viaggi, sceneggiature (che stanno comode nei cassetti) e recensioni. Il suo motto è “Blond is a state of mind”, modifica continuamente idea e tiene i piedi in diverse scarpe, tutte rigorosamente tacco 12. Le uniche cose che non cambierà mai sono: Woody Allen e Star Trek, di cui è incallita fan.
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