La recensione di Cold War il film di Pawel Pawlikowski con Tomasz Kot e Joanna Kulig al cinema dal 20 dicembre.
Bianco e nero. Quattro terzi, il formato quasi quadrato. Due caratteristiche che il regista Pawel Pawlikowski aveva già utilizzato per Ida (Premio Oscar come miglior film straniero nel 2015) e che nel suo ultimo film Cold War ritornano. Una scelta registica che alla fine si rivela quasi necessaria.
Perché il bianco e nero conferisce alla storia un senso di antico e ineluttabile, e il quattro terzi imprigiona sullo schermo i due protagonisti e non lascia spazio ad altro se non alla loro impossibile storia d’amore.
Wiktor (Tomasz Kot) è un musicista intellettuale e cupo in certa di libertà. Zula (Joanna Kulig) una giovane cantante dal passato misterioso. I due si conosceranno e innamoreranno al primo sguardo nella Polonia comunista degli anni ’50 e non si lasceranno più. O meglio, si lasceranno di continuo, e la politica è la grande motivazione dietro a cui si nasconderanno, ma i veri ostacoli sono interiori e psicologici. Destinati a incontrarsi ogni volta a distanza di anni, ogni volta con più dolore accumulato, ogni volta con il respiro della fine sul collo, i due vivranno una storia rara e preziosa, di quelle che possono solo distruggerti.
Il contesto storico è ingombrante, Wiktor e Zula sono esuli in cerca di una patria, sono artisti in cerca di una libertà libera dai compromessi, ma quella che Pawlikowski vuole raccontarci è una storia universale, che non sarebbe tanto dissimile da questa in un’altra epoca e in un altro luogo.
La storia è la massima espressione del romanticismo eppure niente nel film è romantico, se non la dedica che compare prima dei titoli di coda: “Ai miei genitori”. Una scritta che gela il sangue, perché rende tutto ancora più intimo e personale e fa dedurre che questa sia una storia le cui ombre il regista le ha in qualche modo vissute, affabulandole, immaginandoci sopra cose, ma partendo da qualcosa di molto reale.
E il risultato è un film che pur nella sua cupezza risplende, un film maestoso che rimane negli occhi per tanto tempo.
Impossibile non ripensare agli sguardi che i due protagonisti si scambiano (la recitazione dei due attori è magnetica e in stato di grazia), unica cosa che hanno da scambiarsi perché quando si parlano non fanno altri che ferirsi. Il contesto storico li ha resi deboli, li ha resi insicuri, spaventati. Ci si può davvero amare in un momento storico del genere? Sembra chiedersi il film. Ma esiste un momento storico in cui ci si possa amare davvero, quando si è due poli opposti? Questa storia non avrebbe avuto esiti migliori se ambientata a Milano nel 2018. Anche senza il divieto di spostarsi, e i documenti validi, e la propaganda di regime. Quando due vogliono stare insieme ma sono destinati a farsi soffrire non c’è contesto che tenga. Ed è qui la forza del film. La sua universalità, che lo rende un possibile classico senza tempo.
Cold War è un film che non ha bisogno di spiegare niente, perché racconta cose che non si possono spiegare.
La struttura rispecchia l’interrotto e lacunoso rapporto fra i due amanti: in un arco temporale di 15 anni le ellissi e i salti temporali sono tanti. Dalla Polonia degli anni ’50, Pawlikowski ci porta a Berlino Est, in Yogoslavia, nella Parigi più romantica dei locali con sottofondo la musica Jazz. E poi, come in ogni cerchio che si rispetti, di nuovo in una Polonia dove tutto sembra in rovina, i luoghi e le anime di chi li abita. Struggente vedere il tempo che scorre sui volti dei due amanti, sul loro modo di stare vicini, sul loro modo di stare al mondo.
Come con le diapositive, il regista salta da un luogo e da un’epoca all’altra, senza soffermarsi a raccontare cosa accade in mezzo. Il rapporto causa effetto nel film – proprio come nella storia d’amore – non esiste. Il film, come il legame che unisce i due amanti, procede per salti, spazi vuoti, buchi neri, momenti di stasi e incontri imprevisti. Tutto è casuale, come i destini dei due protagonisti. Ma tutto è anche predestinato, e la scena finale lo dimostra.
Stare vicini è impossibile tanto quanto stare lontani. Tutte le scelte più sbagliate sono dettate dalla remota possibilità di rivedersi. Si è disposti a tutto. Ma quando poi ci si rivede tutta la sofferenza delle separazioni passate torna a danneggiare anche i rari momenti di condivisione.
Forse uno dei momenti più difficili da reggere è quando Wiktor dopo una serata passata con Zula torna a casa dalla attuale compagna. Quando lei gli chiede dove sia stato, lui risponde, con una naturalezza disarmante: “Ero con la donna della mia vita”, come se quella fosse l’unica cosa da fare al mondo, la cosa più normale e giustificabile. Ed è straziante perché un amore del genere non lascia spazio ad altro. E tutti quelli che lo vivono da testimoni esterni lo sanno. E cosa dovrebbero ribattere?
Un film davvero da non lasciarsi sfuggire, struggente ma catartico. Per sicurezza andate a vederlo in cui giorno in cui siete molto felici.
Margherita Giusti Hazon
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.