Recensione di Ben is Back, il nuovo film di Peter Hedges al cinema dal 20 dicembre 2018.
Esterno. Notte. Inverno. 24 ore per dimostrare alla propria famiglia di essere pulito. È questa la sfida di Ben, interpretato dal giovanissimo e versatile Lucas Hedges che con Manchester by the Sea (2016) è stato candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista e qui dà ulteriore prova del suo talento. Il suo Ben è un diciannovenne che dalla comunità torna a casa (siamo in una cittadina della provincia americana) per la vigilia di Natale. Ben ha un rapporto speciale con sua madre Holly, che appena lo vede fuori da casa non sa se essere più felice o terrorizzata.
Holly è Julia Roberts, che torna a vestire i panni di una madre tanto dura quanto amorevole (portare il proprio figlio da vivo al cimitero come monito non è da tutti): nelle 24 ore che Ben passerà in famiglia, lei lo controllerà a vista, perchè ci è già passata e conosce a memoria le ombre che abitano il tunnel in cui il figlio si trova, le bugie croniche, le pressioni psicologiche che lo schiacciano.
Lo scrittore e regista (nonché padre dell’attore protagonista Lucas) Peter Hedges (Buon compleanno Mr. Grape, About a Boy) torna a parlare di famiglie con disagio incorporato, e lo fa guardandosi alla specchio: il suo background viene da lì, l’esperienza della vita vera. Ciò che Hedges mette in scena è tutto fuorchè un sermone e, se forse non spicca per originalità e stile, questo suo ultimo lavoro è un’opera scarna, cruda, che grazie a una sceneggiatura che bilancia molto bene momenti più distesi a colpi di scena e dramma, riesce a far entrare lo spettatore nella mente, nei dubbi, nei sensi di colpa e nei continui ripensamenti di una persona che vive al buio della sua stessa prigionia, mentale e fisica.
Hedges non tratteggia la parabola di un singolo, ma quella di una famiglia, perché le conseguenze del passato (e forse anche presente?) di uno dei componenti ricadono su tutti. E lui lo sa bene: sulla madre Holly, terrorizzata e allo stesso tempo ben determinata a non far ricadere tutta la famiglia nel tunnel; ma anche sul patrigno Neal (Courtney B. Vance) e sulla sorella Ivy (Kathryn Newton) molto poco intenzionati a farsi rovinare gli schemini di famiglia felice e senza guai.
Il titolo lo svela subito, il punto di vista non è quello di Ben ma quello di chi vive il suo ritorno a casa: lo spettatore vive i dubbi della madre, insieme a lei vorrebbe sfondare la porta del camerino nel negozio di un centro commerciale quando Ben è chiuso dentro da solo e potrebbe non resistere all’ennesima tentazione.
L’azione prende il via con un pretesto (interessante, però): il rapimento dell’amato cagnolino di famiglia che trascina i due protagonisti verso una notte fredda e oscura in cui dovranno essere complici verso un unico obiettivo. Riportare il piccolo – e quindi l’equilibrio e la serenità – a casa.
Un climax che si addentra nelle ore notturne di una vigilia di Natale che si fa sempre più cupa e oscura. I personaggi sono seguiti per la quasi totalità del tempo da una steady-cam e questo aumenta l’empatia dello spettatore, che inevitabilmente si ritrova seduto nel posto passeggero in questo on the road quasi “artico” (pare abbiano girato anche a meno 30°).
E sembra essere proprio questo il messaggio – se c’è – di Ben is Back: salite voi a bordo, al posto di Holly, e provate a mettervi nei panni della madre di Ben. Questo è un mondo che non ha più compassione. Solo il cinema e le storie – che hanno quel giusto distacco – possono aiutarci ad allenare questa rara e preziosa cosa che è l’empatia e che sembra si stia estinguendo un po’ come il Grifone del Bengala.
Madre e figlio hanno i minuti contati, in poche ore dovranno riuscire a conoscersi davvero, svestirsi e provare a liberarsi delle conseguenze dei gesti del passato e dei sensi di colpa, per essere uniti in una lotta contro se stessi. Le ricadute sono sempre dietro l’angolo, ad ogni curva per Ben (e quindi per Holly) si nasconde la possibilità di non farcela.
L’unità spazio temporale – scelta molto azzeccata – non lascia spazio al melodramma, e rende densa l’azione e il dialogo. Il prima non esiste, se non come monito e presagio del dopo. I pericoli sono tutti interiori (non fanno – volutamente – molta paura i vari spacciatori e individui in cerca di vendetta incontrati nel percorso, anzi, fanno quasi tenerezza). La sintonia fra Hedges Junior e la Roberts sono la ciliegina su una torta che magari si mangia spesso, ma che però si vede che è fatta con il cuore. E chissà – nonostante nei pronostici non compaiano – che non li rivedremo di nuovo uniti, fra qualche mese, nella corsa agli Oscar?
Margherita Giusti Hazon
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.