La recensione de L’uomo che rubò Banksy, il film evento di Marco Proserpio su uno dei più grandi esponenti della Street Art contemporanea. Al cinema solo l’11 e il 12 dicembre 2018.

La locandina del film L’uomo che rubò Bansky

La locandina del film L’uomo che rubò Banksy

Un gatto siberiano a Gaza. Un lanciatore di fiori a Gerusalemme. Una colomba corazzata a Betlemme. E, sempre a Betlemme, il controverso Donkey’s Documents – il murales di Banksy che più di tutti divise l’opinione pubblica medio-orientale. Chi era questo street artist che dal 2005 (se non prima) si permetteva regolari incursioni in Palestina? E cosa fare dei suoi murales più provocatori? La risposta arriva da un uomo che mai avremmo associato al profilo di un trafficante d’arte: un taxista, un body-builder, un venditore di banane al mercato. In una parola: Walid “The Beast”.

Il brillante documentario di Marco Proserpio sul mercato della Street Art in Europa parte proprio da qui, da un taxista incazzato, un asino considerato offensivo e un pezzo di muro pesante 4 tonnellate stimato 100 mila dollari su E-bay. Sembrerebbe l’inizio di una barzelletta se quel muro non avesse poi effettivamente fatto il giro di mezza Europa e fosse ora in un magazzino londinese in attesa di essere venduto a un prezzo almeno sei volte superiore a quello iniziale.

L’uomo che rubò Bansky: Il murales Donkey's Documents di Banksy - Photo courtesy of Nexo Digital

Il murales Donkey’s Documents di Banksy – Photo courtesy of Nexo Digital

L’uomo che rubò Banksy segue l’odissea di questo muro dal 2007 ad oggi. Da quando fu interpretato come un’offesa al popolo palestinese a quando entrò suo malgrado in quel weird secondary market di cui fanno parte i più grandi collezionisti di opere da strada di oggi. Da quando ancora non era visto come una denuncia verso tutte quelle ristrettezze di spostamento cui erano soggetti i palestinesi, ma solo come uno scandaloso dipinto che dava loro degli asini.

Fu così che Walid “The Beast”, sotto retribuzione del grande imprenditore Maikel Canawati, decise di farsi mandante del “furto” ed estirpare il problema alla radice. Un semplice colpo di flessibile ad acqua ed ecco che la turpe offesa di Banksy si trasformava in una ricca fonte di guadagno. Per i palestinesi e, soprattutto, per Canawati – che reinvestì parte del ricavato nella ristrutturazione di una chiesa locale. La domanda che prende allora forma davanti ai nostri occhi è: fino a che punto è lecito lo sfruttamento della Street Art da parte dei privati? E, soprattutto, come tutelare i diritti di un artista quando di fatto la sua stessa opera d’arte è un crimine contro la legge?

Walid "The Beast" in una scena del film L’uomo che rubò Bansky - Photo courtesy of Nexo Digital

Walid “The Beast” in una scena del film – Photo courtesy of Nexo Digital

L’uomo che rubò Banksy ripercorre con lucidità e potenza tutte le dinamiche sotterranee al mercato della Street Art in Europa. E non teme di smascherare anche l’ipocrisia di quelle istituzioni disposte a schierarsi ora per la demonizzazione e ora per la museizzazione dell’arte di strada. Sarebbe quasi bello poter dire che l’arte che vive in strada, nasce e muore in strada. Ma L’uomo che rubò Banksy è ben lungi da questa parzialità di sguardo. E pur offrendoci la testimonianza dei più svariati rappresentanti del settore – collezionisti, professori, manager, taxisti – lascia che in fondo sia la nostra sensibilità a schierarsi su posizioni imparziali.

Senza troppe manipolazioni retoriche, Proserpio riesce a dar vita a un prodotto ricchissimo, forse fin troppo centrifugo. Il risultato è un documentario che cavalca l’onda del muro di Banksy per parlare in realtà anche di un alto tipo di muro. Un muro alto 8 metri e lungo 730 chilometri. Quello che separa Israele dalla Palestina. Già protagonista di quel bellissimo docu-animato titolato Wall da Cam Christiansen, il «muro della vergogna» è oggi una gran tela bianca per tutti gli street artist del Medio Oriente. In 90 minuti viene data voce anche a tutti quegli albergatori o artigiani capaci crearsi un business in virtù di questi graffiti. Primo fra tutti lo stesso Banksy, responsabile dell’ apertura del provocatorio Walled Off Hotel, “hotel con vista muro” a Betlemme.

L’uomo che rubò Bansky: Walid "The Beast" davanti al muro fra Palestina e Israele - Photo courtesy of Nexo Digital

Walid “The Beast” davanti al muro fra Palestina e Israele – Photo courtesy of Nexo Digital

L’uomo che rubò Banksy riesce a offrirsi come un’ampia panoramica sui retroscena più tristi, ambigui e contraddittori del mondo della Street Art contemporanea. E come un’appassionata indagine sui modi di sfruttare, sì, ma anche di eternare un’arte altrimenti effimera e destinata all’autodistruzione. Soprattutto lancia una luce benevola e solidale verso tutti quegli artisti costretti a vivere nell’ombra ma capaci di parlare al mondo intero. E questo vale tanto per Banksy quanto per tutti quegli street artist che, come Blu in Italia, cercano una propria via alla contestazione dei valori capitalisti e social-mediatici.

Sopra tutto ciò, col suo timbro profondo, sacrale e velatamente ironico, trionfa la voce narrante di Iggy Pop. Ex- froontman degli Stooges e tra gli indimenticabili firmatari della colonna sonora di Trainspotting, non poteva che rivelarsi lui la scelta più felice per un documentario che, tra reperti telefonici e uso sciolto della camera a mano, emana un forte e irresistibile profumo punk-rock. Realizzato in collaborazione con RAI Cinema e presentato nell’ambito del progetto Grande Arte al Cinema, L’uomo che rubò Banksy sarà proiettato solo l’11 e il 12 dicembre come evento speciale presso le sale elencate sul sito di Nexo Digital.itnon deludete Walid e passate a trovarlo al cinema!

Alessandra del Forno