HIGH LIFE: Claire Denis porta al Torino Film Festival la sua odissea uterina

Recensione di High Life, il nuovo film di Claire Denis con Robert Pattinson, Mia Goth e Juliette Binoche, in anteprima al Torino Film Festival 2018.

il poster del film High Life (2018)

Vox populi, vox dei è un detto che non mi ha mai trovato particolarmente d’accordo, men che meno in materia cinematografica.
Non è una questione snobista. Ma se le voci del popolo (inteso come quello che guarda i film in streaming e poi commenta sotto ai film di Lanthimos “ma che palle, la vita è molto più semplice di così”) e dei suoi difensori (Zalone serve perché porta soldi al cinema) diventano assordanti, allora servono le auricolari o finisce che di grandi film si parla poco, così poi non escono in bluray, e così io mi incazzo.

Perché captando vagamente la vox populi sui titoli di coda di High Life di Claire Denis, l’impressione è quella di aver visto un “2001” diretto da Tommy Wiseau.
Invece si è appena concluso uno dei più conturbanti e provocatori film delle ultime stagioni, un disperato ed elusivo capolavoro di umana fantascienza

Che prende il via da un copione modellato dalla stessa Denis col collaboratore di lunga data Jean-Pol Fargeau (sceneggiatore di Beau Travail, ma anche di Pola X di Carax) e da un futuro più che distopico in cui i carcerati divengono cavie lanciate nello spazio ed utilizzate in missioni più suicide che scientifiche, a cavallo tra esplorazione energetica e ossessivi esperimenti di fecondazione assistita. Oscillando tra gioventù ed età adulta di Monte (Robert Pattinson), tra le sensuali torture della dottoressa Dibs (Juliette Binoche), il futuro isolamento e le dinamiche degli altri galeotti a bordo della monolitica astronave.

Juliette Binoche nel film High Life (2018) – Photo: TFF 2018

Cerco di evitare le iperboli, ma non riesco.

Quello affrescato dalla Denis è un futuro di dolore biblico, smarrito, dove la pena per chi sbaglia è più di vita che di morte. Mentre le ambizioni scientifiche e il “miracolo” della vita si accartocciano e aggrovigliano attorno alle pulsioni primitive e a miserabili colate di sperma.

Queste ultime, ricorrenti, sono l’immagine del film ma non conducono verso amore o erotismo, bensì verso le frustrazioni di corpi abusati e cicatrizzati.
Lo spazio non è incantevole ma solo un purgatorio che atterrisce, mentre la Terra (che non vediamo quasi mai, se non in un frammentario flashback) probabilmente non se la passa meglio.
L’astronave, spogliata di tutti i cliché della letteratura sci-fi, sembra più un ambulatorio medico dove nessuno ti tranquillizza, un reparto maternità in stato di abbandono che rimbomba dei suoni del sodale Stuart Staples; e piano piano, mentre il film scava nel convulso, diventa essa stessa un grande utero inospitale e traditore.

una scena del film High Life (2018) – Photo: TFF 2018

Con una regia meditativa che fa il paio con l’inerzia dell’equipaggio e nessuna traccia di CGI o di orpelli futuristici, la Denis esordisce “all’inglese” e con il genere come meglio non potrebbe, con passo sicuro ma nel contempo salvaguardando il suo sguardo autoriale europeo. Alla lontana High Life ricorda il silenzioso isolamento di Moon (2009, Duncan Jones), ma la filosofia o qualsivoglia umorismo vengono spazzati immediatamente via da immagini plumbee e storie incredibilmente meste.
Di cui Pattinson si fa intensamente carico. Se con la duplice collaborazione con David Cronenberg e Good Times aveva raggiunto la maturità, qui l’attore si prende perlomeno una laurea triennale.

Se la complessità di un futuro non interamente tratteggiato è insidioso e disorientante, meglio.
Se l’umanità della Denis lascia le stesse speranze di una vittoria alla lotteria, è normale.
Se arriva prima un agonizzante, egoistico orgasmo di una qualsivoglia redenzione, non chiedete indietro il prezzo dell’aureo biglietto.

Benvenuti nell’inesistenzialismo galattico.

Voto: 9/10

Luca Zanovello

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