La recensione di Senza lasciare traccia, il film di Debra Granik ispirato ad una storia vera. In uscita al cinema l’8 novembre 2018.
La regista americana Debra Granik torna alla regia (sono trascorsi 8 anni da Un gelido inverno) con un film scarno ed emozionante, Senza lasciare traccia, ispirato al romanzo di Peter Rock My Abandonment (a sua volta tratto da una storia vera), che torna ad interrogarsi su una questione che sta a cuore a tante persone e che la settima arte ha portato spesso sullo schermo: fino a che punto siamo davvero liberi di scegliere in che modo vivere?
La pellicola racconta un’esistenza vissuta ai margini per scelta: quella di un padre e una figlia, Will e Tom (rispettivamente Ben Foster e la giovanissima, talentuosa e magnetica Thomasin McKenzie), che vivono da anni lontano da tutto e da tutti nel vasto parco ai margini di Portland, giorno e notte a contatto con la Natura (e con loro stessi). Ma una mattina come tante altre il presunto idillio viene distrutto, e da allora i due entreranno in un sistema fatto di assistenti sociali, separazioni dolorose e ricongiungimenti sotto compromesso: una nuova casa su misura in cui provare ad adattarsi a quella che la convenzione definisce una “vita normale” fatta di una cucina, un letto, armadi per i vestiti e non solo – fosse solo questo. Controllo, orari, scadenze, moduli da firmare. Cose da dimostrare. Domande stupide a cui rispondere.
Senza lasciare traccia è un Captain Fantastic (Matt Ross, 2016) ancora più asciutto e toccante, poetico, un elogio del ritorno alle origini, alla terra, al poco o niente che poi è tutto, un utopico viaggio alla ricerca della propria indipendenza, della libertà, della solitudine.
In una società che ci rende sempre più dipendenti (dalle cose, dal lavoro, dell’avere, dal mostrarsi, dal superfluo, ma soprattutto dalle persone e dal loro possesso), Will (e di conseguenza anche Tom) fa dell’indipendenza la sua religione. Ma è una religione riconosciuta? Accettata? Compresa? Condivisa? No, è una religione che spaventa, perché se dimostra che per vivere (e non per sopravvivere) abbiamo bisogno davvero di poco, mette in discussione quasi tutti i gesti che compiamo ogni giorno, anche schiacciare l’interruttore della luce.
E quando si ha poco o niente intorno, non si hanno dei fornelli su cui passare ore ed ore a preparare piatti elaborati che possano stupire, non si hanno specchi davanti ai quali farsi più belli, non si hanno dispositivi per chattare e stare alla giusta distanza, si può solo stare più vicini, aiutarsi, condividere ogni fungo raccolto, tagliato e assaporato, ogni notte sotto le stelle, e anche ogni sorso d’acqua, che ci si è guadagnati, non con i soldi ma con la fatica e l’esperienza.
La Granik è bravissima a togliere, a sottrarre, e grazie a una scrittura fatta solo di azioni i due personaggi escono dalla schermo come due esseri che hanno tanto a che fare con l’arcaicità dell’esistenza, con la purezza, la bontà, la gentilezza.
In particolar modo Tom, che negli sguardi e nella postura ricorda tanto un piccolo animale indifeso ma stabile, alla ricerca di qualcosa ma consapevole, tutto d’un pezzo, sincero come solo le cose che riguardano la terra e non l’umanità sanno essere.
La relazione padre-figlia è al centro di ogni scena, ed è raccontata solo attraverso gli sguardi, i silenzi, addirittura la posizione dei corpi nelle scene, che si avvicinano e si separano con la naturalezza di ogni percorso di crescita e consapevolezza. Colpisce che in Senza lasciare traccia non ci sia la figura del “cattivo”: gli assistenti sociali non sono burocrati crudeli che vogliono reinserire in società a tutti i costi due disagiati. Tutti i personaggi secondari hanno una loro autonomia e non sono mai confinati in stereotipi: sembra che tutti in realtà vogliano aiutare Tom e Will trovando la soluzione migliore per loro, ma chi glielo ha chiesto?
Il vero antagonista del film in realtà è un nemico che in tanti incontriamo tutti i giorni, il conflitto fra il voler trovare il proprio posto nel mondo e il desiderio di essere liberi (e invisibili). Le due cose si escludono per definizione, fanno parte di un bivio da tragedia greca.
E come tutti i bivi, Tom e Will dovranno decidere da che parte stare.
Non tutti quelli che vagano sono persi. Citazione da Tolkien che la Granik ha tenuto a mente mentre scriveva questa storia, perché in fondo il suo è un messaggio di speranza, veicolato da un finale che lascia un peso sul cuore, ma che ci ricorda che nessuno è immune all’amore. E anche se a volte dobbiamo lasciare andare le persone che amiamo, quelle persone saranno sempre con noi, non importa sotto che forma e in che modo.
Margherita Giusti Hazon
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.
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