Recensione de Il Verdetto (The Children Act), il film con Emma Thompson e Stanley Tucci, tratto dal romanzo di Ian McEwan, al cinema dal 18 ottobre 2018.
Fiona Maye è un importante giudice e, lavorando nella sezione Famiglia dell’Alta Corte Britannica, è spesso chiamata a risolvere casi difficili quanto di grande impatto mediatico che affronta con lucidità e competenza. La sua carriera non va però di pari passo con la sfera coniugale. Sposata da sempre con Jack, un bravissimo Stanley Tucci, negli ultimi tempi i due si ritrovano distanti, travolti da una quotidianità fatta di appuntamenti di lavoro, emergenze, pratiche urgenti ad ogni ora e impegni personali rimandati a data da destinarsi.
Lo status quo subisce una scossa il giorno in cui a Fiona viene affidato il caso di un ragazzo minorenne, Adam, in urgente necessità di una trasfusione salva-vita, se non fosse che i suoi genitori sono testimoni di Geova e non permettono tale pratica. Mossa da un bisogno latente e ancora inespresso, la donna decide, in maniera del tutto inaspettata, di fare visita al giovane in ospedale. Si intrattiene qualche minuto con lui, per capirne le convinzioni e le intenzioni, canta una canzone e scambia quattro chiacchiere per poi tornare in Tribunale ad emettere il verdetto. La sentenza darà piena facoltà al team medico di effettuare la trasfusione necessaria.
Da questo momento niente sarà più lo stesso, ovviamente. Adam si riprenderà e scoprirà una nuova vita fino a ieri a lui preclusa dall’ottusità della setta cui apparteneva, con tanto di appostamenti e lettere al giudice che lo ha fatto rinascere; mentre Fiona dovrà affrontare quei sentimenti che non è mai stata brava ad esprimere, anche a causa dell’estrema razionalità e distacco richiesti dal suo ruolo istituzionale.
Quello a cui si assiste ne Il Verdetto (The Children Act) è non tanto l’analisi delle conseguenze della sentenza, quanto il cambiamento cui va incontro la protagonista, una bravissima Emma Thompson (che riuscirebbe a rendere interessanti anche le pagine gialle) ed il suo modo di affrontare scelte che mai avrebbe pensato di trovarsi davanti. Si assiste alla contrapposizione tra la fermezza e la razionalità, che hanno caratterizzato la sua esistenza e la sua carriera, e l’incertezza con cui invece affronta le questioni personali.
Il film approfondisce in modo efficace questi due aspetti, contrapposti e lontanissimi, di una persona che ha vissuto fino ad ora in una sola dimensione. I dialoghi spezzati senza riuscire a trovare le parole, e le discussioni con il marito che finiscono bruscamente per incapacità a comunicare, rappresentano bene i sentimenti contrastanti di una donna che si vede inaspettatamente coinvolta, non solo professionalmente, in uno dei casi che ha curato. Sono proprio questi momenti infatti che, più di altri, ci danno un’idea chiara di quello che la protagonista stia passando.
Un po’ meno efficaci sono, invece, quei passaggi in cui il regista, Richard Eyre, calca la mano nel percorso di liberazione/crescita/scoperta dell’adolescente. Qui la credibilità della storia ne risente. Soprattutto in quei momenti in cui il ragazzo confonde l’interesse del giudice per la sua vicenda per qualcosa di simile all’amore che ancora non ha provato e che pensa essere la risposta a tutte le sue domande.
Il percorso di paure e di dubbi del ragazzo procede parallelamente a quello della donna, con tappe simili anche se in ambienti opposti. Questo incontrarsi e scontrarsi di due mondi lontanissimi, che però vanno nella stessa direzione, è sicuramente uno dei temi più interessanti della pellicola.
Come i due personaggi principali, anche il film ha due facce fragili e forti che si prestano ad una analisi. Da un lato, c’è l’aspetto etico e il modo in cui vengono gestiti casi delicati, che si riverberano su intere famiglie, da chi pare non avere paura d’assumersi una simile immensa responsabilità. Dall’altro, c’è l’autore che scivola nello scontato laddove fa intuire che puntare solo sulla carriera prima o poi si ritorce contro a quell’universo femminile che ha deciso di contravvenire alla convenzione che lo vuole innanzitutto moglie e madre.
La ballata di Adam Henry, il libro di Ian McEwan del 2014 da cui il lungometraggio è tratto, ha avuto un enorme successo di pubblico e critica principalmente per il modo in cui ha toccato temi come la fede, l’etica, la scienza, la carriera e i dubbi che sorgono ad un certo punto dell’esistenza. La trasposizione cinematografica, pur rimanendo fedele al romanzo, alterna momenti efficaci ad altri meno convincenti. Il lavoro rimane di livello, sia chiaro, grazie a due attori che reggono con gran classe la scena, ma le ingenuità e alcuni stereotipi che emergono durante i 105 minuti di durata (donna in crisi dopo aver rinunciato alla famiglia per la carriera, tra tutti), hanno rischiato di minare una storia profonda in grado di sollevare interessanti discussioni sui rapporti umani.
Anna Falciasecca
Bionda, sarcastica, appassionata di regia e di viaggi cerca di unire le sue passioni scrivendo un blog di viaggi, sceneggiature (che stanno comode nei cassetti) e recensioni. Il suo motto è “Blond is a state of mind”, modifica continuamente idea e tiene i piedi in diverse scarpe, tutte rigorosamente tacco 12. Le uniche cose che non cambierà mai sono: Woody Allen e Star Trek, di cui è incallita fan.
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