PADRE: lutto d’artista

film Padre poster

la locandina del film Padre

Relativizzare l’idea che il lutto sia obbligatoriamente perdita. Immaginarlo e raccontarlo, invece, come avvicinamento, riconquista della persona che sembra non esserci più. Sentirla, addirittura, più di prima.
E’ questa la tesi centrale di Padre, dramma spirituale della regista ed attrice Giada Colagrande e suo ottavo lavoro cinematografico, di derivazione sentitamente autobiografica.

A perdere il papà è la protagonista Giulia (Colagrande), figlia d’arte e di artista, in una morte nebulosa e nascosta. Lo ritroverà nelle stanze di casa, comunicando attraverso l’Arte, il pianoforte di cui era maestro, lettere misteriose trovate nei cassetti.
E così padre (Franco Battiato, che cura anche le musiche del film) e figlia si ritrovano nel momento più imprevisto, in bilico tra elaborazione della dipartita e rivelazioni soprannaturali.

Mentre Padre si insinua nella casa e nella solitudine costruttiva di Giulia, supportata solo dalle empatiche visite dell’amico e collega James (Willem Dafoe, eccellente anche quando in secondo piano), la Colagrande dedica la speranzosa lezione a se stessa, a noi e alle disparate proprietà benefiche della cura artistica.
Toccando tutti i colori dello spettro (quasi troppi), dalla musica al teatro, dalla poesia alla pittura, fino a culture, miti e credenze provenienti da culture vicine e lontane, senza aderire in particolare a nessuna (men che meno all’aldilà cattolico), riconducendo poi il suo viaggio all’universale conforto di una morte che “non è la fine di niente”.
A fronte di qualche passaggio un po’ confusionario e oltremodo citazionista, Il film Padre risale la china con il coraggio di uno sguardo fiducioso e pacifico sul lutto, sulla famiglia e sulla resilienza.

MaSeDomani ha incontrato la regista Giada Colagrande e l’attore Willem Dafoe, ecco cosa ci hanno raccontato sul film Padre “e dintorni”.

MSD: Sig.ra Colagrande, Padre nasce da un episodio autobiografico molto particolare: dei sogni in cui appariva suo padre, ma con le fattezze di Franco Battiato: è stato questo a convincerlo ad unirsi al cast?

Giada Colagrande: Franco è stato felice di sapere quello che mi stava accadendo, ha letto i miei sogni come un bellissimo segno, qualcosa che mi stava arrivando… e il suo entusiasmo lo ha spinto a partecipare.

MSD: Mi è piaciuta molto la regia di Padre, soprattutto nell’esplorazione degli spazi della casa di Giulia: angoli di locali, scorci, stanze mai del tutto illuminate…

Giada Colagrande: Per me è sempre stata essenziale la presenza dell’ombra in ogni singola inquadratura, sono patita del Noir americano degli anni Quaranta, che esteticamente viene dall’espressionismo tedesco: l’ombra conta quanto e più della luce, disegna il fotogramma, spesso ne è addirittura l’oggetto principale.
In Padre, volevo una fotografia che mettesse sullo stesso piano il visibile e l’invisibile: ciò che Giulia non riesce a vedere è comunque lì, è già tutto lì. È lei che diventa capace prima di percepire, poi di vedere e infine di comunicare con l’altra dimensione.

Percui insieme a Tommaso Borgstrom (il direttore della fotografia), abbiamo lavorato molto sullo ‘svelamento’ in questi termini: se l’ombra rappresenta il mistero è perché contiene un mondo che non possiamo vedere ma che esiste, così quando riusciamo a vederlo scopriamo che è popolato di entità che sono comunque entità dell’ombra, non si manifestano attraverso la luce. È un po’ come aguzzare la vista quando si è al buio, non ti avvali della luce per vedere, ti inoltri ancor più nel buio.

MSD: Il film non ritrae solo svariate forme d’arte, ma ha anche nel cast artisti poliedrici (Marina Abramovic, Franco Battiato): è un altro modo per dimostrare la fluidità dell’arte?

Giada Colagrande: Crescendo mi sono nutrita più di musica, danza e arti visive che non di cinema e teatro. Tuttora sono loro a ispirare e accompagnare il mio percorso interiore.
Per cui la presenza di queste forme d’arte in Padre, che è il mio film più intimo e spirituale, riflette semplicemente l’importanza che hanno nella mia vita.
Il contributo di Franco Battiato e di Marina Abramovic, entrambi artisti che hanno sviluppato un loro linguaggio proprio a partire da una libertà espressiva che trascende distinzioni e categorizzazioni formali, non è che un altro riflesso della stessa importanza.
Il grande potere del cinema del resto è proprio quello di comprendere tutto: corpo e spirito, arte e realtà, lentezza e velocità, luce e ombra, suono, musica, silenzio… può evocare tutte le sensazioni fisiche e allo stesso tempo trascenderle. Ed è questa la ragione per cui ho scelto di fare cinema.

Willem Dafoe: Sono cresciuto come artista nella scena Newyorkese degli anni settanta, un periodo di grande fertilità e di grande interconnessione tra le varie discipline artistiche.
Un mondo in cui un’estetica naif, in un certo senso dilettantistica, e la propria biografia erano fonti di produzione ed ispirazione artistica quasi più importanti della formazione tradizionale e della carriera.
Ad esempio il collettivo teatrale The Wooster Group, in cui ho lavorato per quasi trent’anni, era composto da ballerini, artisti visivi, musicisti, disegnatori e poeti.
Attualmente come attore mi sento più ispirato da altre forme artistiche, rispetto a teatro o cinema.
Il contesto sociale ritratto nel film è stato riportato da Giada, ma riflette un mondo che abbiamo sperimentato e vissuto entrambi.

Giada Colagrande e Willem Dafoe in una scena del film Padre

Giada Colagrande e Willem Dafoe in una scena del film Padre

MSD: Padre menziona spesso la solitudine, che per la protagonista è il modo di ritrovare i segnali mandati dal padre, tra le mura di casa. La solitudine aiuta a sentire le “entità nascoste”?

Giada Colagrande: Credo che la solitudine aiuti a connettersi, con se stessi e con i piani più sottili dell’esistenza.
Per questo credo che aiuti anche a sentire e svelare le dimensioni nascoste, comprese le entità che le abitano.

Willem Dafoe: Mi ritengo una persona socievole e per questo motivo apprezzo e sento il bisogno della presenza degli altri. Ma per vedere nitidamente ciò che è visibile e quello che è invisibile credo che si debba resistere alle distrazioni della vita moderna e ritagliarsi dei momenti per sé, ritirarsi nella propria stanza in contemplazione, almeno per una parte della giornata.

MSD: Mr Dafoe, In pochi giorni Coppa Volpi a Venezia per aver interpretato un artista consumato e distrutto dalla sua Arte (Vincent Van Gogh), oggi qui a Milano per presentare un film in cui l’Arte salva vite e rapporti. Fare Arte è liberatorio o può anche essere pericoloso e autodistruttivo?

Credo che una volta che un attore entra in possesso di una profonda ed esperta connessione col processo creativo, diventa capace di sperimentarlo positivamente, vivendo il dispiegarsi di tutte le cose con gioia e non con ansia o paura.
L’arte nelle sue forme “pessimiste” può comunque essere di conforto, così come le sue forme più gioiose ed elevate possono avere un effetto liberatorio.

MSD: Il suo personaggio è l’unico che riesce a inserirsi nella solitudine e nella dimora cristallizzate della protagonista, in un modo intimo ma pudico: cosa le è piaciuto di lui e di questa relazione sullo schermo?

In Padre, il mio personaggio ha un atteggiamento protettivo nei confronti di Giulia, è quasi un membro della sua famiglia dal momento che era un caro amico e collaboratore di suo papà. Ha visto crescere Giulia dato che ha all’incirca gli anni dell’uomo.
Nel film, il mio personaggio sta anche preparando un’opera teatrale che ha a che fare con il rafforzamento delle donne come artiste. E aggiungo che, essendo gay, il suo rapporto con Giulia non ha sfumature paternalistiche o di attrazione sessuale.
Tutte queste caratteristiche lo rendono per me un ruolo interessante e inedito, quello del confidente che la supporta e sostiene.
E’ un personaggio che sento e che conosco, ma che non avevo mai interpretato fino ad oggi.

intervista a cura di Luca Zanovello
con la collaborazione di Margherita Giusti Hazon