Recensione di Opera senza autore, il nuovo film di Florian Henckel von Donnersmarck con Tom Schilling dal 4 ottobre nelle sale.
Dopo il grandissimo successo de Le vite degli altri e, in minor parte, di The Tourist, Florian Henckel von Donnersmarck concorre ora a Venezia con un nuovo film in odore di premi: Werk ohne Autor (never look away), distribuito in Italia col titolo Opera senza autore. Interpretato da Tom Schilling, Paula Beer e – come ai tempi dell’esordio registico – Sebastian Koch, questo nuovo film sul rapporto fra arte e Germania metà-novecentesca pare aver conquistato gran parte del pubblico lagunare. Dopo alcune regie innovative ma esuberanti (Napszálita – Tramonto) o, al contrario, un po’ telefonate e deludenti (L’accusata), ecco che finalmente sbarca al Lido un’altra piccola perla. Piccola perchè ancora, purtroppo, lontana dalle vette sfiorate col film d’esordio, ma tutt’altro che piccola in termini di durata: con i suoi 188 minuti, Opera senza autore è senz’altro uno dei film più lunghi in concorso.
La storia, impossibile da riassumersi in poche righe, è quella dell’artista Kurt Barnert (Tom Schillig) e delle sue continue rinascite artistiche in una Germania sommessa ora ai diktat hitleriani, ora ai diktat sovietici. Ambientato tra Germania Est e Germania Ovest, negli anni compresi fra il 1937 e il 1961, il film è ispirato agli eventi realmente accaduti nella vita del pittore tedesco Gerahard Richter. Ed è una personalissima riflessione sulla funzione salvifica e rivelatrice dell’arte nella (piccola e grande) Storia dell’uomo. Un’arte che nasce dalla necessità di sublimare le proprie ferite individuali in qualcosa di bello, di giusto, di vero, generatore di senso. E un’arte che finisce per parlare con una generazione intera. Di una generazione intera. Mentre tutt’intorno di senso sembra esserne rimasto ben poco: non nè è rimasto negli ospedali spichiatrici, nelle accademie, persino nelle case borghesi. Forse solo in qualche fotografia…
Nella lunga strada verso la conoscenza di sè e della propria potenzialità espressiva, Kurt vive il proprio piccolo inferno personale: il lutto per la lontana e amatissima zia May, vittima inconsapevole del Dipartimento di Salute del Reich (Saskia Rosendahl); gli aborti più o meno spontanei della bellissima consorte Ellie (Paula Beer); le asettiche e ottuse imposizioni del realismo socialista. Stretto fra le angustie della destino, Kurt ignora però di gravitare intorno a colui che i fili del destino per un bel po’ li ha manovrati: il Prof. Carl Seeband (Sebastian Koch), a.k.a. padre di Ellie, nonché “assassino-dei-malati” per progetti d’eugenetica razzista.
«Seeband è un mostro. È un pezzo di ghiaccio e un dominatore. Ma ciò che è veramente mostruoso è che è convinto di star facendo la cosa giusta. Non c’è senso di colpa. […] Il focus era lo scontro fra questi due uomini che a prima vista non hanno nulla in comune, entrambi due menti brillanti, ma che non potrebbero essere più differenti di così, e con modi completamente opposti di approcciarsi alla vita e al mondo. […] La materia trae la sua forza dallo scontro di questi due uomini e il risultato è una belissima storia riguardo l’essenza dell’ispirazione e il potere dell’arte.»
I rapporti di questo triangolo famigliare sono il vero nocciolo dell’intreccio, il baricentro da cui si diramano le vie che portano ai vari snodi narrativi. Tanti, interessanti, forse troppi. L’unica pecca del film risiede infatti nella scelta di aver voluto mettere troppa carne al fuoco e di aver imboccato, per non bruciare le parti migliori, la facile strada della sintassi televisiva. Tuttavia, il risultato finale è quello di un film, sì, magari più lungo del dovuto, ma non per questo meno coinvolgente o emozionante. Von Donnersmarck si conferma un regista capace di traghettare la filmografia tedesca verso nuovi lidi. Chissà che quello veneziano non riservi qualche sorpresa…. Dal 4 ottobre al cinema!
Alessandra Del Forno
n.d.r. Come da tradizione di MaSeDomani, potete leggere tutti i nostri articoli su Venezia 75 con un semplice clic qui
Amante del cinema documentario e di tutto ciò che riesca a sublimare in immagini la poeticità del quotidiano, Alessandra è una giovane laureata che vede in Wenders, Tarkovskij (e Aldo, Giovanni e Giacomo) la strada verso la felicità. La potete trovare ogni due lunedì del mese tra i cinefili del LatoB e tutte le altre sere tra gli studenti di documentario della Luchino Visconti a Milano.