La recensione di Frères Ennemis, il film di David Oelhoffen con Matthias Schoenaerts e Reda Kateb in anteprima a Venezia 75.
Dopo il successo di Loin des hommes (2014), il regista francese David Oelhoffen presenta in concorso a Venezia 75 la sua ultima pellicola, Frères Ennemis, un thriller-apnea di 111 minuti intenso, cupo, asciutto, un noir notturno che mette in scena il classico e tragico conflitto fra due amici sui versanti opposti della legge.
Il film, ambientato nelle strade e fra i palazzoni e i garage di un quartiere malavitoso parigino, intreccia le vite di Manuel e Driss, interpretati da Matthias Schoenaerts e Reda Kateb – per la prima volta insieme sul grande schermo. Amici d’infanzia, le loro strade si sono drasticamente divise ma sono destinate a rincontrarsi. Il primo è immerso in un grosso affare di narcotraffico ed è in bilico fra la morte e la prigione, il secondo è un poliziotto della narcotici. L’uccisione di un amico storico di entrambi e partner in crime di Manuel, li porterà a doversi tornare a fidare l’uno dell’altro per cercare di sopravvivere in una danza di vendetta e redenzione.
Si trattano sempre con sufficienza i film che “non inventano nulla di nuovo”, che raccontano “storie già viste” o che hanno uno “costruzione troppo classica”. La verità è che forse, se si continua a mettere in scena una storia, è perché ha ancora qualcosa da dire. E lunghissima vita alle costruzioni “classiche” e solide se fanno in modo che ogni dettaglio sia al suo posto, senza eccessi o voragini di sceneggiatura, dove ogni incastro del puzzle alla fine torna a casa. Quella di Oelhoffen è un’opera che forse non aggiunge niente, ma la sua linearità e i suoi ingranaggi la fanno funzionare alla perfezione.
Frères Ennemis ha tutti gli ingredienti per non essere il solito gangster movie, ma una storia solida capace di far aderire l’empatia dello spettatore allo sguardo dei due protagonisti.
Due attori, più magnetici che mai. Uno (Schoenaerts), eroe tragico schiacciato da scelte obbligatorie e contrastanti, lo sguardo intenso volto a smascherare il labile confine fra amici e nemici; l’altro (Kateb), chiuso nel suo ingombrante fatal flow, colpevole di aver preso decisioni che neanche i genitori gli hanno mai perdonato. Impossibile non immedesimarsi in due figure così umane e reali.
Un conflitto che si sgancia dal contrasto fra bene e male per farsi più sfaccettato e sporcarsi con gli odori che vengono da sotto i tombini delle strade di periferia e trasformarsi in una guerra fra onore e senso di colpa, dignità e paura. La posta in gioco è già alta al minuto uno, e diventa altissima da metà film in poi: la prigione e la vita fuori si ammogliano non poco, l’istinto di sopravvivenza si scontra con la necessità morale della vendetta e i regolamenti di conto arrivano sempre dalle persone che dicevano di proteggerti.
Un cuore, perché il film ha una dimensione intima e umana tangibile e profonda, che s’intravede in alcune scene toccanti come l’abbraccio della madre al figlio poliziotto, dopo anni di separazioni e silenzi; il bacio fra Manuel e la sua ex moglie, madre di suo figlio, che nonostante tutto è ancora disposta a testimoniare per lui con la naturalezza di chi ha amato davvero; le esitazioni ad uccidere chi giurava di esserti amico e invece ti ha tradito.
Tutto molto classico, è vero. Ma i grandi contrasti hanno il potere di essere eterni e universali. Quindi perché smettere di raccontarli?
Margherita Giusti Hazon
n.d.r. Come da tradizione di MaSeDomani, potete leggere tutti i nostri articoli su Venezia 75 con un semplice clic qui
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.