Recensione di At eternity’s gate, il nuovo film di Julian Schnabel con Willem Dafoe dal 3 gennaio 2019 al cinema.
Si può girare un film come se si stesse dipingendo un quadro? Si può impugnare una cinepresa come se fosse un pennello? In At eternity’s gate la risposta di Julian Schnabel pare essere affermativa. Noto sulla scena newyorkese come pittore, oltre che come regista, Schnabel sembra infatti voler confezionare il proprio film come un’opera artistica. E quello che ci chiede è di seguirlo in questo viaggio proprio con lo stesso entusiasmo che avremmo di fronte alla contemplazione di un quadro. Ma non un quadro qualunque: un quadro di Vincent Van Gogh.
Questa non è una biografia del pittore realizzata con precisione scientifica ma è un film sul significato dell’essere artista. È finzione, e nell’atto di perseguire il nostro obiettivo, se tendiamo verso la luce divina, potremmo addirittura incappare nella verità. L’unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte.
Bisogna dunque essere pronti a guardare questo film con occhi nuovi, curiosi, disincantati. Bisogna essere pronti a fare la conoscenza del grande artista, qui interpretato dall’eccezionale Willem Dafoe, attraverso un linguaggio cinematografico diverso, originale, metaforico, al limite dell’impressionista. Per cui ecco i mascherini volti a offuscare l’immagine, i filtri (non a caso gialli – si scopre alla fine perchè) atti ad amplificarne certe percezioni sensoriali, ecco perfino un momentaneo cambio di fotografia (dal colore al bianco e nero). Insomma, pur nel riproporre un tema che dal ’48 non teme rivisitazioni (si veda il corto di Resnais o il più recente Van Gogh – Tra il grano e il cielo), At eternity’s gate ha sicuramente il pregio di farlo attraverso mezzi sperimentali e innovativi, avanguardisti in un certo senso. Proprio come avanguardista era l’animo del pittore stesso.
Qui reso tra i tormenti e l’estasi creativa dei suoi ultimi anni di vita, il Van Gogh di Julian Schnabel risulta un animo fragile e visionario, pervaso da un inesauribile flusso di pensieri e da un’amore incommensurabile per la natura, vera co-protagonista del film. I paesaggi sconfinati, i campi di grano o di girasole, le pianure, le radici sono tutti paesaggi capaci di suscitare quest’unica e fondamentale riflessione, alla base del film: «Quando mi trovo davanti un paesaggio piatto non penso ad altro che all’eternità». Non è il rapporto col mondo degli uomini che sta a cuore al regista; anzi, quello è semmai confinato ai limiti dell’incomunicabilità e dell’irrisione – con eccezion fatta di due sole personalità, quella più luminosa del fratello Theo (Rupert Friend) e quella più ruvida dell’amico Gauguin (Oscar Isaac). È il rapporto con la natura quello fondamentale. Essa è manifestazione del divino, della bellezza – «God is nature and nature is beauty» in originale nel film – ed è la sola ed unica fonte d’ispirazione (e di comunicazione) per il pittore.
In questi momenti la macchina da presa finalmente si ferma, lascia parlare i paesaggi, ma per la maggior parte del tempo sono le soggettive febbrili, vorticose, «nette e veloci» come le pennellate dell’artista, a farla da padrone. Il risultato è un film intenso ed emozionale, con qualche scelta stilistica un po’ indigesta e di difficile fruibilità, ma con un Dafoe eccezionale che merita sicuramente di essere recuperato nelle sale: dal 3 gennaio 2019 al cinema!
Alessandra Del Forno
n.d.r. Come da tradizione di MaSeDomani, potete leggere tutti i nostri articoli su Venezia 75 con un semplice clic qui
Amante del cinema documentario e di tutto ciò che riesca a sublimare in immagini la poeticità del quotidiano, Alessandra è una giovane laureata che vede in Wenders, Tarkovskij (e Aldo, Giovanni e Giacomo) la strada verso la felicità. La potete trovare ogni due lunedì del mese tra i cinefili del LatoB e tutte le altre sere tra gli studenti di documentario della Luchino Visconti a Milano.