Recensione di The Mountain, il film di Rick Alverson con Tye Sheridan e Jeff Goldblum in anteprima al Lido.
Poteva essere una bellissima occasione, l’ambiziosa opera del regista indipendente originario di Richmond Rick Alverson, conosciuto soprattutto per il suo ultimo lavoro, Entertainment, presentato nel 2015 al Sundance Film Festival.
Nell’America degli anni Cinquanta, un giovane introverso si unisce a un famoso lobotomista che promuove la propria procedura, la cui validità è stata da poco smentita. Durante le visite agli ospedali psichiatrici, il giovane comincia a identificarsi con i pazienti, in particolare con la figlia di un carismatico leader del nascente movimento New Age nelle regioni dell’Ovest.
Seminare indizi, in un film così pieno di simboli, silenzi e suggestioni, era sicuramente la strada giusta per creare quella tensione necessaria a delineare il profondo conflitto fra vittima e carnefice, paziente e dottore, preda e cacciatore. Ma se in un film sulla lobotomia i personaggi appaiono lobotomizzati ancora prima dell’operazione, c’è qualcosa che non va.
Un impianto visivo ipnotico, una regia composta da geometrie perfette e ovattata immobilità, un tappeto sonoro incredibile, intenso, straniante, orrorifico, non sono abbastanza per considerare quest’opera un lungometraggio significativo.
È il piano narrativo a deludere sopra ogni altra cosa: nonostante l’intento evidente ed esibito di voler narrare una non-storia, tutto lo sviluppo risulta inefficace e ai limiti del grottesco. In primis a causa delle interpretazioni degli attori, piatte (nel caso di Jeff Goldblum e Tye Sheridan) e respingenti, nel caso di Denis Levant, a cui viene lasciato ampio spazio in due monologhi completamente sopra le righe ai limiti del sopportabile.
Per quanto il classico arco di trasformazione del personaggio non sia nelle corde del regista, qui sarebbe stato interessante vedere le lente ma inesorabili discese agli inferi dei personaggi. Quella dello scienziato pazzo Dottor Fiennes, sempre più ossessionato dalla pratica folle della lobotomizzazione, da cui sembra talmente elettrizzato da non poterne più fare a meno. E per il giovane aiutante fotografo interpretato da Sheridan, reduce dalle avventure spielberghiane di Ready Player One che qui, fin dal primo minuto, risulta – presagio piuttosto scontato – una sorta di ameba dolente e senza personalità. L’intesa amorosa fra Andy e una delle pazienti del dottor Fiennes (interpretata da Hannah Gross) non produce alcuna emozione nè ombra di tenerezza, non ha il sapore della salvezza o della catarsi.
Forse l’aspetto più interessante di The Mountain, e che il regista sembra volerci suggerire, è che sia tutta una grande metafora per parlare dell’America e del suo governo, il cui obiettivo è rendere le persone “più tranquille”, meno pericolose e soprattutto meno libere di esprimersi, condividere, parlarsi, starsi vicine, amarsi soprattutto nei momenti più oscuri e nelle inquietanti pieghe che la mente nasconde e poi rivela. Ma queste sono solo vaghe sensazioni, perché i tanti simboli, i momenti di stasi, i silenzi colmi di nostalgia sono lasciati a metà e non riescono a trasmettere quell’empatia necessaria a legarsi ai personaggi e alle loro desolanti vicende.
Margherita Giusti Hazon
n.d.r. Come da tradizione di MaSeDomani, potete leggere tutti i nostri articoli su Venezia 75 con un semplice clic qui
Laureata in Lettere Moderne, Margherita lavora alla Fondazione Cineteca Italiana, collabora con la rivista Fabrique du Cinéma, ha in corso alcuni progetti come sceneggiatrice e ha pubblicato il suo primo romanzo, CTRL + Z, con la casa editrice L’Erudita.
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