Recensione del film Lucky, l’esordio alla regia di John Carroll Lynch con protagonista Henry Dean Stanton.
Al cinema dal 29 agosto 2018.
Lucky è una poesia su grande schermo.
Scarna e diretta come il country di Johnny Cash e lievemente nostalgica come le canzoni dei mariachi messicani.
Una pellicola che diverte, commuove e tocca le giuste corde dell’animo umano.
John Carroll Lynch, per la prima volta dietro la macchina da presa, costruisce un film e cuce un personaggio addosso all’icona del cinema americano Harry Dean Stanton (14.07.1926 – 15.09.2017).
Descrivere Lucky solo come un, seppur sincero e ammirato, tributo al mitico attore, è davvero limitante per un’opera prima dalla regia semplice, quanto visionaria e dalla sceneggiatura impeccabile, condita da dialoghi brillanti ed azzeccati.
Diamo al regista, inoltre, il merito di aver indagato una fase dell’esistenza, quella del fine vita, che difficilmente vediamo al cinema, senza troppa retorica, con ironia e un inevitabile velo di malinconia.
Lucky è un vecchio scorbutico e ribelle che vive solo in una cittadina tra America e Messico. Un piccolo incidente casalingo lo mette difronte alla paura della solitudine e della morte.
Ma l’anziano, anche se non è sposato e non ha figli, non è affatto solo. Sono tanti i concittadini che lo hanno a cuore, ed è proprio dal confronto con ognuno di essi che arriverà ad affacciarsi alla morte con una serena e commovente consapevolezza.
Nella carrellata di personaggi che fanno da contorno alla vita semplice ed abitudinaria del protagonista, merita sicuramente di essere menzionato Howard, un tipo eccentrico e stralunato che ha smarrito il suo più grande amico: una testuggine del deserto.
Howie è interpretato dal grande David Lynch, proprio a tener teso quel fil rouge che lega Lucky a Stanton, quasi sempre presente nel cast dei film più famosi del geniale regista americano.
Le riflessioni sulla morte e sul difficile compito di come affrontarla, si fanno più intense e interessanti quando vengono introdotti concetti filosofici e teologici, mascherati da dialoghi arguti e spiazzanti.
Il tema del realismo apre il film: quello che è reale e concreto per me, può non esserlo per te. Quello che per gli altri fa ammalare e uccide, come un pacchetto di sigarette o un bicchiere di Bloody Maria a sera, per il nostro eroe è un elisir di lunga vita.
Ancora, il libero arbitrio: essere padrone delle proprie azioni e delle proprie scelte e decisioni.
Come Lucky viene cacciato da un posto chiamato, non a caso, Eve’s per una sigaretta, così i progenitori vengono cacciati dall’Eden per aver colto una mela.
La differenza tra i vari credo: ricordando le imprese durante la Seconda Guerra Mondiale, un avventore al bar e l’anziano protagonista, citano un kamikaze giapponese ed una bimba taoista che abbraccia la morte con rassegnata felicità.
Infine, la relatività, quando confrontiamo il vecchio con altri due protagonisti-non protagonisti del film: la, già citata, testuggine President Roosvelt e il cactus gigante, esseri sì centenari, ma che prima o poi cesseranno di vivere.
Come Lucky, come tutti.
Col suo fisico fragile ma saldo e la sua voce flebile ma severa, Lucky-Stanton regge il peso dell’intera opera e, permettendo alla macchina da presa di seguire il suo passo incerto ma incessante, ci introduce in una toccante parabola di vita.
Tra una sigaretta ed un bicchiere di latte, l’ex marinaio che ha combattuto per l’America, ma che cita il Che, che fuma erba guardando un quiz televisivo, che difronte alla possibilità di prendere un pet da compagnia, sceglie dei grilli, può finalmente varcare quella porta con su scritto EXIT con un sorriso sereno e, ovviamente, con gli stivali e il cappello da Cowboy.
Violetta Biagiotti