Recensione di Blaze, il nuovo film diretto da Ethan Hawke presentato in anteprima in Piazza Grande al Locarno Festival 2018.

un’immagine del film Blaze - Photo: courtesy of Locarno Festival

un’immagine del film Blaze – Photo: courtesy of Locarno Festival

“Non voglio diventare una star, voglio diventare una leggenda”, diceva Blaze Foley alla fidanzata Rosen, quando ancora strimpellava la sua chitarra nel loro nido d’amore lontano dal mondo e dalla civiltà texana.
Qualche anno dopo Blaze, corpulento e barbuto, impugna la gavetta e piano piano diventa punto di riferimento del country e del folk americano, al punto da ispirare monumenti musicali del calibro di Willie Nelson.

La poetica sensibile e addolorata è il lato A, un animo irascibile e tormentato quello B: il disco finisce a soli trentanove anni quando Blaze, tanto celebre quanto alcolicamente disperato, viene ucciso al culmine di un’ennesima lite.

La rapida parabola di un personaggio e artista in verità non così popolare in Europa diventa il biopic Blaze, diretto da Ethan Hawke e basato sul libro “Living in the Woods in a Tree: Remembering Blaze Foley” di Sybil Rosen.

un’immagine del film Blaze - Photo: courtesy of Locarno Festival

un’immagine del film Blaze – Photo: courtesy of Locarno Festival

Hawke racconta a Locarno la sua passione per “quegli angoli d’America poco illuminati, come il sud del Texas in cui cresce e imbraccia la chitarra Blaze”, che si trasforma in un film musicale classico ed accorato, a lungo inseguito ma scritto in poche settimane (“di pausa, tra una recitazione e l’altra”).

“Volevo realizzare una country western opera”, dice l’attore-regista, “E raccontare il potere della musica, capace di unire nel tempo le persone, gli artisti e chi ascolta. Ed è riuscita anche a dare unità al racconto”.
Che, con scorci Lansdaliani e buon montaggio, fluidifica tre diverse linee temporali: quella del Blaze pre successo, quella del Blaze riconosciuto e il suo lascito umano ed artistico raccontato in radio dai compagni di avventura, quest’ultimo lo spaccato più vivido. In tutte l’attore e musicista Ben Dickey (alla sua seconda prova) convince e declina bene il cuore ed il caratteraccio di Blaze.

un’immagine del film Blaze - Photo: courtesy of Locarno Festival

un’immagine del film Blaze – Photo: courtesy of Locarno Festival

“Vedo la vulnerabilità come una forza, capace di fare crescere e di tirare fuori il meglio da ognuno di noi”, continua Hawke. “Il film parla di questo, come le canzoni country dice hey, mi dispiace se soffri, ma soffro anch’io. Soffriamo tutti ogni tanto”.

Ed è qui che vince la sua partita: dietro alla copertina specifica di Blaze c’è infatti una storia di portata universale, magari non rivoluzionaria, ma genuina. Di sentimenti interrotti, irrisolti o contraddittori, brandelli di infelicità disseminati tra hits e vita.
Così il biografico (nonostante l’infinità di intermezzi coi brani reinterpretati da Dickey) diventa in un certo senso utile anche a chi di Blaze, del country o persino della musica se ne fa poco.

un’immagine del film Blaze - Photo: courtesy of Locarno Festival

un’immagine del film Blaze – Photo: courtesy of Locarno Festival

E a chi chiede ad Ethan Hawke come abbia gestito il lavoro dietro la macchina da presa, lui risponde con trasparenza, umanità e riferimenti ad amici e colleghi di lungo corso: “Cerco di tirare fuori il meglio dagli attori facendo quello che i miei maestri hanno fatto con me. Faccio di tutto per creare quell’atmosfera di divertimento e fiducia reciproca che cerco quando recito.

Per esempio Richard Linklater mi ha sempre trasmesso un grande senso di fiducia nelle nostre numerose collaborazioni, percepivo in lui la felicità di lavorare con me. E’ una dinamica non molto diversa da quella che un allenatore mette in atto con un giocatore. Se invece il regista non crea queste condizioni, l’attore diventa una versione più piccola e trattenuta di se stesso.”

Ethan Hawke parla col pubblico del Locarno Festival del film Blaze - Tosi Photography

Ethan Hawke in conversazione col pubblico del Locarno Festival © Tosi Photography

Hawke, che in Blaze compare in un brevissimo cameo nei panni di uno speaker radiofonico, commenta la scelta di non essersi voluto ritagliare uno spazio maggiore: “Probabilmente la mia presenza avrebbe aiutato il film in sede di produzione, ma è difficile dirigersi… Come fai a tornare a casa pensando “in quella scena sono stato proprio bravo!”? Mi sentirei narcisista e un po’ in colpa. Degli amici però lo hanno fatto egregiamente, penso a Giovani, Carini E Disoccupati in cui Ben Stiller era per me sia regista che co-star. Ma resta un dualismo delicato.”

E il post-Blaze quale sarà? “Reciterò nel prossimo film di Hirokazu Kore-eda, The Truth, insieme a Juliette Binoche e Catherine Deneuve. Lui mi ha visto in Boyhood e gli è piaciuto molto. Sai, anche i suoi film, come quelli di Linklater, sono ricchi di due elementi che trovo fondamentali: umanità e rispetto”.
Fattori che, con le dovute proporzioni, Hawke riesce a inserire nelle pieghe di Blaze. Quanto basta per non renderla un’operazione inutile, autocontemplativa o per pochissimi nostalgici.

Voto: 6,5/10

Luca Zanovello

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