La recensione del documentario L’Apollon de Gaza, il nuovo lavoro di Nicolas Wadimoff in anteprima al Locarno Festival 2018.

un’immagine del film L’Apollon de Gaza - Photo: courtesy of Locarno Festival

un’immagine del film L’Apollon de Gaza – Photo: courtesy of Locarno Festival

La bellezza ci salverà è uno degli hashtag che preferisco sui social. L’idea che l’arte e la sua bellezza riescano ad avvicinarci tutti nell’ammirarla, studiarla, capirla e, perché no, condividerla, alleggerisce a me (e molti altri) l’anima, in un’epoca in cui la paura e l’incertezza regnano sovrane. Parlare quindi di un Apollo ritrovato, di una statua di rara bellezza, riemersa dagli abissi come suole a un Dio, non può che infondere serenità e speranza. Se però il rinvenimento avviene nelle acque del mare di Gaza, allora ecco che ci irrigidiamo a causa delle migliaia di titoli e immagini che vediamo sui quotidiani.

L’Apollon de Gaza è il documentario di Nicolas Wadimoff con cui s’è inaugurata la Semaine De La Critique al Locarno Festival.

Quello di Wadimoff è un ritorno a Gaza, dopo Aisheen del 2010, ed è la ricerca di una verità quasi impossibile da scoprire. Perché dal lontano agosto 2013, momento del ritrovamento da parte di un pescatore piuttosto incauto, che ne ha mozzato un dito per accertarne il valore e ne ha fatto circolare la notizia malamente, questo Apollo gli esperti sono riusciti a vederlo solo in fotografia. Pochi mesi dopo è scomparso – malgrado i 300 chili di peso e l’altezza di oltre 1 metro e 70 centimetri!

E qui entriamo nel campo delle supposizioni, giacché ogni intervistato si è fatto un’idea, dalla più plausibile alla più scaramantica.

Dal timore (fondato) che la statua possa essere un falso, al rimettersi nelle mani dell’Altissimo e dei suoi miracoli (tra cui quello di non far corrodere il bronzo come ci si aspetta dopo un millennio in ammollo). Dal sospetto che sia stata venduta sul mercato nero e sia andata perduta in nome del Dio-denaro per un riscatto sociale, a quello che sia finita nelle mani di Hamas (“intanto era un dio e pure nudo”, chi lo sa).

un’immagine del film L’Apollon de Gaza - Photo: courtesy of Locarno Festival

un’immagine del film L’Apollon de Gaza – Photo: courtesy of Locarno Festival

Da ultimo c’è la teoria – la nostra preferita – secondo cui le autorità l’abbiano requisita per proteggerla sino a tempi migliori, quando si potrà esporre e le persone si riuniranno per parlare e approfondire di nuovo la storia di quella terra. Una terra in cui sono passati i romani, i bizantini, i crociati, Riccardo Cuor di Leone e anche Napoleone. È stata un importante porto commerciale, il capolinea dell’incenso, la residenza dell’imperatore Adriano, tanto per capire che molto potrebbe ancora riaffiorare da quei fondali e da quella sabbia. Sarà il giorno in cui si apriranno i musei e si faranno scavi archeologici. Un idillio.

Il film del regista ginevrino ha il pregio di non scivolare nei meandri della politica. Si sposta da una scrivania a un museo, dall’ufficio di un professionista a quello di un burocrate, da un sito alla spiaggia mentre raccoglie testimonianze per ricostruire i passaggi che hanno portato alla scomparsa del bronzo. E’ così che, complice il ritmo sempre sostenuto, ci tramuta in piccoli investigatori sul campo e riesce a contagiarci con la speranza che alla fine riusciremo a vedere L’Apollon de Gaza.

Vissia Menza

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