La recensione di Una Luna Chiamata Europa (Jupiter Holdaj), il film di Kornèl Mandruzcò al cinema dal 12 luglio 2018.
Aryan (Zsombor Jèger), un ragazzo siriano, viene colpito al petto da tre proiettili mentre cerca di attraversare illegalmente il confine ungherese. Sopravvissuto, scoprirà di riuscire a levitare in aria a comando. Il Dr. Stern (Merab Ninidze), un medico che cura i rifugiati, scoperto il dono del giovane, cercherà di sfruttarlo a suo favore.
Il regista destabilizza immediatamente lo spettatore: quell’Europa, luna di Giove, del titolo, è subito metafora del vecchio continente. Un parallelo che si basa sulla speranza di vita. L’originale incipit permette a Mandruzcò di infondere alla sua opera un allure fantascientifico. Intento portato avanti soprattutto a livello registico e scenografico. L’intera vicenda, infatti, si svolge in una non ben definita città postmoderna ungherese, grigia ed asfissiante, in un tempo più vicino al presente che al futuro.
La questione migranti, invece, che ci riporta alla tragica attualità, si rivelerà solo un (furbo?) escamotage per un discorso filosofico-religioso molto più ampio che è il cuore del film: il rapporto tra l’uomo e Dio.
Kornèl Mandruzcò si interroga sul concetto di fede attraverso la relazione fra i due protagonisti: Aryan, giovane figura il cui parallelo con Cristo è evidente; e il Dr. Stern, un medico cinico e disincantato che ha perso amore e dedizione per il suo lavoro e, forse, per la vita in generale.
Dal momento in cui il ragazzo gli svela il suo segreto, il medico inizia, prima inconsciamente, poi sempre più volontariamente, a vivere la sua redenzione.
Aryan è come un angelo che ci insegna a credere nei miracoli. Entra di colpo nella monotona vita del Dr. Stern e gli ricorda di alzare lo sguardo al cielo, come fosse un moderno messia.
Il tema della gravità è un sotto testo interessante. La gravità è la forza che ci rende fisici, materiali, ancorati alla terra. Concetto che il regista esagera, presentandoci dei personaggi soffocati dal loro lavoro, che svolgono senza passione (non solo Stern, ma anche amanti, colleghi e antagonisti) in una dimensione metropolitana angosciante e distopica in cui pure gli occhi sono bassi e le teste sono chine.
Aryan arriva e, col suo fare ingenuo e spaventato, sconvolge le leggi della fisica, le piega. Gli unici momenti di ampio respiro della pellicola sono quando il ragazzo si libra in aria: tutto si ferma e non possiamo che essere rapiti da questa figura fluttuante.
La regia, dai ritmi ora sfrenati, ora molto lenti, si avvale di effetti speciali funzionali al racconto e la macchina da presa un momento sgattaiola veloce tra i personaggi o le auto, un momento dopo si fissa a contemplare i due protagonisti. Il risultato è un lungometraggio singolare.
Una luna chiamata Europa è un ibrido tra un film d’azione e un film d’autore, che lascia allo spettatore, soprattutto nel finale, degli spunti di riflessione originali ed interessanti, ma che risulta di difficile immediata comprensione. Il consiglio è quindi di entrare in sala pronti partire per un viaggio visivamente coinvolgente e accattivante, in un mondo che fonde la realtà di un presente tormentato alla metafisicità di un futuro prossimo colmo di speranza.
Violetta Biagiotti
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