La recensione di Estate 1993 il film di Carla Simòn nei nostri cinema dal 5 luglio 2018.
Frida (Layla Artigas), una bambina rimasta orfana, viene accolta dalla famiglia dello zio. Da Barcellona si sposta nella campagna Catalana e lì passa la sua prima estate con il nuovo nucleo familiare composto dallo zio Esteve (David Verdaguer), sua moglie Margarita (Bruna Cusì) e la loro bimba, Anna (Paila Robles). Nel corso dei mesi estivi, i quattro dovranno trovare un equilibrio perché la loro possa definirsi davvero una famiglia.
La regista catalana Carla Simòn, classe 1986, decide di debuttare con un lungometraggio estremamente personale, portando sullo schermo una storia d’ispirazione autobiografica.
È per questo che la macchina da presa è puntata quasi esclusivamente sulla piccola protagonista, cercando di scovarne l’infinita serie di emozioni che la animano.
Scelta particolarmente azzeccata è, inoltre, quella di mettere lo spettatore nei panni di Frida anche a livello uditivo. Dall’inizio del film, infatti, “i grandi” bisbigliano, quasi sempre parlando di lei, convinti di non essere sentiti. Ma Frida è una bambina particolarmente attenta, intelligente e sensibile e percepisce che il cambiamento che la sta travolgendo, riguarda lei in prima persona, ma anche zii e nonni.
Frida ha appena perduto sua madre. Così piccola deve confrontarsi con un dolore estremo. Deve anche misurarsi con tante situazioni nuove: il passaggio dalla città alla campagna; da figlia unica a sorella della piccola Anna, alla quale da subito rivolge il monito di non toccare le sue bambole; e, soprattutto, deve imparare ad accettare e farsi accettare dalla sua nuova famiglia.
Con uno stile molto asciutto, dal taglio quasi documentaristico, la regista sembra ispirarsi al cinema dei fratelli Dardenne. Ritroviamo, infatti, lo stesso “pedinamento” del personaggio. La macchina da presa accompagna Frida in una sorta di consapevolezza della sua identità e della realtà che sta vivendo, e porta lo spettatore, inevitabilmente, a patire e a gioire con lei. Più va avanti il film più cresce l’empatia tra il pubblico e la piccola protagonista. Entriamo in sintonia con le sue emozioni che lei per prima forse non riconosce: capiamo il dolore, il disagio, la gelosia nei confronti di Anna, capiamo la voglia di scappare, la necessità di avvicinarsi spiritualmente alla mamma attraverso una semplice preghiera, come le ha insegnato la nonna, ma, soprattutto, comprendiamo il suo infinito desiderio di essere amata.
La figura della mamma è, in realtà, sempre presente. Ne parlano i parenti, la piccola la chiama nella notte…
La mamma è la grande assenza/presenza di Estate 1993. Quasi a portarci a pensare che lo sguardo amorevole della macchina da presa che mai abbandona la bambina, sia lo sguardo della madre stessa che la accompagna e la veglia come un angelo custode.
Tutto questo viene raccontato con naturalezza e semplicità. Allo spettatore parrà di entrare nella testa della regista e poter vivere i suoi ricordi. L’opera della Simòn, infatti, non è un racconto lineare di una serie di eventi, quanto un susseguirsi di immagini e situazioni sature di carica emotiva, come stessimo sfogliando un album di foto.
Estate 1993 è un inno alla famiglia. Una famiglia in trasformazione che mette a dura prova i suoi quattro elementi in cerca di una difficile, ma possibile, armonia. Ed è anche uno splendido inno all’infanzia vissuta negli anni ’90, quando i bambini avevano tutto il tempo di giocare con gli insetti, arrampicarsi sugli alberi, di scherzare, litigare, fare pace, farsi male e poi guarire. Quando gli adulti erano presenti, ma non onnipresenti e opprimenti.
Non stupisce, quindi, che sia stato selezionato dall’Academy Award per rappresentare la Spagna agli Oscar di quest’anno. È infatti un piccolo gioiello da non perdere.
Violetta Biagiotti
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