PAPILLON L’incredibile storia di un sopravvissuto ad una colonia penale francese

La recensione di Papillon, remake dell’omonimo film del ’73 a sua volta basato sull’autobiografia di Henri Charrière. Al cinema dal 27 giugno 2018.

la locandina italiana del film Papillon

Parigi, primi anni ’30. Henri Charrière vive una vita dissoluta, tra amori, divertimenti e affari più o meno loschi che sembrano indirizzarlo verso un’esistenza sopra le righe fatta di soldi e passatempi facili. Tutto cambia il giorno in cui viene incastrato per omicidio e finisce per direttissima in una colonia penale, più precisamente nella famigerata Isola del Diavolo, nella Guyana francese. Da qui in poi le giornate saranno scandite solo dagli inumani ritmi di lavoro, dettati da un sistema carcerario tra i più efferati della storia, e da svariati tentativi di fuga alla ricerca di una libertà ingiustamente negata.

Papillon, come il suo predecessore del 1973 interpretato da Steve McQueen e Dustin Hoffman, ripercorre in chiave moderna gli eventi narrati nel libro autobiografico di Charrière.

Michael Noer, qui alla sua prima prova in un lungometraggio internazionale, con un cast di tutto rispetto, unisce le forze a quelle dello sceneggiatore Aaron Guzikowski per portare sullo schermo un racconto che cerca di rimanere più fedele possibile alle pagine del libro. Per quanto le testimonianze suscitino ancora dubbi, o perlomeno curiosità, sulla veridicità di quanto descritto, la pellicola presenta una fotografia realistica di quelle che erano le pratiche punitive dei campi di detenzione lontani da tutto e, in particolar modo, dalla natìa Francia che non ha esitato a rinnegare i suoi ex cittadini.

Una scena del film Papillon – Photo: courtesy of Eagle Pictures

Più che una veridicità feroce e diretta sulle violenze, fisiche e psicologiche, subite in anni d’isolamento, il regista punta sulla crudezza dei sentimenti che guidano il protagonista a resistere ogni volta ad una prova più dura che sembra non lasciare scampo. L’esilio prima, i lavori forzati dopo, la speranza di uscire ed i piani di fuga, impossibili da realizzare e che portano solo ad altri guai e all’ennesimo isolamento, ancora più lungo e atroce del precedente. L’unica forza che rimane a Papillon (così soprannominato per via di una farfalla tatuata sul collo) è quella rappresentata dall’amico Louis Dega, interpretato da Rami Malek, che incontra sulla nave all’inizio dell’esilio e che diventerà, nel corso degli anni, la spalla su cui appoggiarsi e la persona per cui sopravvivere, in una sorta di amicizia che sembra trasformarsi in amore platonico man mano che gli anni passano e la speranza di ritornare alle proprie vite si allontana inesorabilmente.

Lungi dal trasformarsi in un film in cui la violenza delle torture la fa da padrone, caratteristica che probabilmente non avrebbe scandalizzato nessuno, vista l’abitudine dello spettatore a scene forti ormai in qualunque contesto, Papillon punta invece su altri aspetti e li mantiene con coerenza sino alla fine, senza troppe digressioni e senza abbondare in retorica e inutili sotto-trame. Il protagonista (Charlie Hunnam) sembra aver capito perfettamente la linea da seguire e si presta a portare sullo schermo un uomo scavato fisicamente ma soprattutto mentalmente.

Rami Malek e Charlie Hunnam in una scena del film Papillon – Photo: courtesy of Eagle Pictures

Nonostante il maggior impatto si abbia nelle scene d’insieme, con le centinaia di detenuti che si muovono all’unisono e condividono ogni secondo della loro prigionia, perno della storia sono invece le inquadrature in cui i due amici si incontrano, si aspettano, si aiutano e si danno man forte nei rispettivi piani di fuga. I vari periodi di distacco non fanno che accentuare il pathos fino all’incontro successivo, dando un significato concreto alla parola “amicizia” e alle impensabili sfaccettature che può assumere nel momento in cui un uomo non ha più niente da offrire e niente a cui ambire.

Papillon non regala sorprese eclatanti, non è un capolavoro ma neanche una pellicola d’azione che esagera con colpi d’effetto. È, al contrario, abbastanza fedele alla storia originale. È rispettoso e un po’ distaccato, dimostrando l’intento di coinvolgere lo spettatore nel colmare quei vuoti che anche i protagonisti si sono trovati, loro malgrado, a riempire.

Sicuramente, oltre al portare alla luce immagini di repertorio (che sono un pugno nello stomaco più dell’intera parte di finzione), Papillon riesce a solleticare la nostra curiosità e ad indurci a ripescare sia il best seller di Charriére sia il film di Franklin J. Schaffner, un lungometraggio con due pesi massimi del cinema degli anni ’70 che forse in pochi ricordano.

Anna Falciasecca

 

Leave a Comment