La recensione di L’Atelier, il nuovo film di Laurent Cantet, in anteprima a Cannes 2017 e nei nostri cinema dal 7 giugno 2018. 

la locandina italiana del film L’Atelier

la locandina italiana del film L’Atelier

Un paese arido e comatoso nel sud della Francia. Un laboratorio di scrittura per ragazzi tenuto da un’affascinante autrice di libri gialli. Un partecipante difficile, ma anche talentuoso, pronto a sfidare possibilità e limiti dell’apprendimento, del rapporto allievo-insegnante e dell’immaginazione.
Questo è il terreno de L’Atelier, dramma thriller passato da Cannes 2017 diretto da Laurent Cantet e scritto insieme a Robin Campillo (120 Battiti Al Minuto), che riavvicina i due autori francesi (dopo La Classe e Foxfire) che sanno meglio catturare acuti e stonature della materia pedagogica, adolescenziale e sociale.

L’Atelier è un ulteriore gradino (forse anche due) verso l’analisi in cinema dei suddetti ambiti, forse più nelle ambizioni che nella riuscita, ma che tenta in modo interessante ed a-critico di cogliere la complessità.
Quella del potere deflagrante della letteratura e della scrittura creativa, insieme a quella sociale e geografica della piccola e sperduta La Ciotat, dei “transfer”, dove Antoine (Matthieu Lucci) si trasforma in manifesto dell’adolescenza difficile e degli esiti emotivamente negoziabili, mentre il tumulto puberale si presenta nel contempo potenziale genio e distruttivo caos.
La scintilla è il suo incontro con l’insegnante Olivia (Marina Foïs), preoccupata per l’aggressività e gli estremismi del giovane, ma altrettanto affascinata dalla sua fantasia e dal suo pensiero laterale.
Mentre l’arte spiega l’arte, Cantet e Campillo sposano più l’oscuro della luce, e il rapporto tra i due protagonisti si fa inquietante.

una scena del film L’Atelier - Photo: courtesy of Teodora Film

una scena del film L’Atelier – Photo: courtesy of Teodora Film

L’Atelier è in effetti un film composito, di quelli che seducono ma che viaggiano anche sull’orlo dell’inconcludenza semantica; questa sarà l’accusa che alcuni muoveranno nei confronti del racconto, che non disdegna nemmeno qualche pennellata di politica e di denuncia, soprattutto insita nel ritratto mesto ed arrugginito dell’attività portuale di La Ciotat.
Se qualche sospensione di troppo è innegabile e probabilmente non calcolata, una fa la fortuna del film, vale a dire quella di giudizio, che evita brillantemente classificazioni di Antonie, personaggio centrale e cruciale della partita. Il ragazzo (Lucci, esordiente, è all’altezza) rimane un’enigmatica figura in divenire, troppo intelligente per diventare uno sbandato e troppo solo, forse, per realizzare se stesso; troppo estremo per integrarsi e troppo unico per omologarsi.

Non è così un compito facile ricondurre tutte le sfumature e le influenze sociali ad un esito o una risoluzione, e L’Atelier presta il fianco alle citate critiche, insieme ad una svolta torva e pistolera a fil di social di cui non si sentiva troppo il bisogno.
Ma, anche in un ordine del giorno bulimico e un po’ disordinato, la sensazione che il film lascia è vivida e suadente, l’eredità un intelligente e realistico brainstorming su questioni letteralmente vitali, dall’età più delicata al senso di arte e immaginazione, due materie immani e, soprattutto, in costante aggiornamento ed evoluzione.

Voto: 6,5/10

Luca Zanovello