Recensione di Lazzaro Felice, il film di Alice Rohrwacher miglior sceneggiatura a Cannes 2018 in arrivo nei nostri cinema dal 31 maggio.

il poster del film Lazzaro Felice

il poster del film Lazzaro Felice

“Hai piantato una margherita e ci hai sputato sopra”. Con questa locuzione, leggermente ripulita per superare la censura, il mio vecchio allenatore definiva un’ottima azione subito rovinata e vanificata con le stesse proprie mani.
Questa poesia da spogliatoio ben descrive Lazzaro Felice, che frutta ad Alice Rohrwacher plausi e il premio per la migliore sceneggiatura a Cannes ma che ha tutta l’aria di un progetto riuscito a metà, capace di intavolare trattative di lirismo e di abbandonarle sbattendo la porta sul più bello.

Catalogatori ed etichettatori compulsivi faticheranno: Lazzaro Felice sfugge, si nasconde dietro la gonna di Miracolo A Milano e sfida un po’ la pazienza di chi guarda.
Così, dopo un’ora di realismo rurale non geolocalizzato in cui emerge la soave semplicità del contadino tontolone Lazzaro (l’esordiente Adriano Tardiolo), la sua improbabile amicizia con il nobile coetaneo Tancredi (Luca Chikovani) è la brusca deviazione; verso il sociale di una storia di sfruttamento e schiavitù che si ricorderà come Il Grande Inganno, poi nella favola biblica in cui si concretizzerà quella sorta di nomen omen del protagonista.

una scena del film Lazzaro Felice - Photo: courtesy of 01 Distribution

una scena del film Lazzaro Felice – Photo: courtesy of 01 Distribution

Di felice, nelle due ore della Rohrwacher, c’è ben poco. Di retorico purtroppo parecchio.
Nonostante l’ammirevole (ma non certo inedita) ballata del semplice, del puro e del vinto, la cattura di quella fascinosa, pacata rassegnazione di chi sta sotto con dignità, il modo di raccontare della regista toscana è poco emozionante e casca nella didascalia.

Va meglio con lo storytelling della fiaba disillusa, quella “santità senza miracoli” di cui Lazzaro è portatore attraverso i tempi e gli spazi del mondo ben indefinito del film. E con la toccante, ancestrale simbologia di un lupo vecchio e stanco che sa riconoscere il bene dal male.
Nel mondo spietatamente umano, invece, la lezione piuttosto pessimista di Lazzaro Felice è che i due opposti hanno una propensione spiccata a convergere nella prevaricazione e nella miseria.

una scena del film Lazzaro Felice - Photo: courtesy of 01 Distribution

una scena del film Lazzaro Felice – Photo: courtesy of 01 Distribution

Come se non bastassero queste tematiche, in cui si smarrirebbe anche un decano, l’ambiziosa Rohrwacher lavora sull’amicizia che trascende ed appiana; anch’essa però rimane sanguinosamente irrisolta negli esiti e nelle implicazioni, quando nel momento focale del film anziché deflagrare come un big bang, si chiude timidamente.

I rimpianti bruciano e i difetti pesano, Lazzaro Felice è un film avvolgente dall’aria ragionata “a metà”, girato in pellicola super16 come ad autoimporsi un metodo meno sfuggente, riflessivo, lento in accezione Kunderiana.
Rohrwacher Alba e la rediviva Nicoletta Braschi compaiono, con personaggi che non servono a nulla.

Luca Zanovello