Dogman: quando i deboli azzannano

La recensione di Dogman, il nuovo film di Matteo Garrone in anteprima a Cannes 2018 e nei cinema dal 17 maggio. 

la locandina del film Dogman (2018)

A volte succede: un’eclissi lunare, la neve a marzo, un parcheggio sotto casa. O un film italiano eccezionale. Eventi eccezionali appunto, che lasciano non solo un senso di piacevole spaesamento, ma anche il dovere di sottolinearne dettagliatamente l’importanza.

In un’annata dai connotati cinematografici tragicomici, infatti, Matteo Garrone presenta in concorso a Cannes il suo Dogman, ritratto molto libero del “Canaro della Magliana” (vedi cronaca nera di fine anni ottanta) che va a costituire non solo il miglior film nostrano dell’annata 17/18, ma anche una stupefacente e sofferente parabola di natura umana, potenziali violenti e naufragi sociali.

L’intensa, abissale cupezza di Dogman, inevitabilmente, riconduce per molti versi a quello che è tuttora il capitolo più feroce della carriera di Garrone, quel L’Imbalsamatore (2002) nero e corrosivo che proprio a Cannes fece fare lo scatto in avanti al regista romano.

una scena del film Dogman – Photo: courtesy of 01 Distribution

Aggiungendo però tre fondamentali elementi, derivanti dall’esponenziale maturazione: un reparto tecnico impeccabile, un cast da miracolo e l’acume analisi sociale già esercitata in Gomorra e Reality.
Una sorta di sintesi di doti, sensibilità ed esplorazione, che Garrone mette al servizio di una storia individuale impregnata di ansia e di ineluttabile tragedia.

Il placido Marcello (Marcello Fonte) è un toelettatore di cani nella peggiore periferia immaginabile, incantevolmente sbiadita dalla fotografia del figlio d’arte Nicolai Brüel.
Nonostante lo sfondo, fatto di degrado acuminato, l’omino “canaro” si mantiene allegro e onesto, persino benvoluto e stimato da chi per campare si arrangia meno bene. Come Simone (Edoardo Pesce, Romanzo Criminale serie), testa calda in un quartiere che già ribolle, che dimostrerà come basti qualche colpo proibito per trasformare l’innocenza in abominio.

una scena del film Dogman – Photo: courtesy of 01 Distribution

In effetti Dogman è un film feroce e rabbioso che mostra l’universalità e l’a-specismo delle reazioni di chi dalla gabbia e dal digiuno si sguinzaglia e morde. L’elemento zoologico, come nel già citato L’Imbalsamatore, è infatti tutt’altro che suppellettile o pretesto, sia a livello semantico che estetico. Sono gli occhi spauriti e guardinghi dei cani ingabbiati a modulare le reazioni rispetto alle azioni, testimoni di un’aggressività che aleggia costantemente nell’aria e della traiettoria di trasformazione di un uomo “pacifico”.

Le virgolette ci dicono che siamo tutto e il contrario di tutto, in potenza, talvolta conseguenze degli eventi, o mascherati nell’eterna frustrazione di una vita solo apparentemente quieta e bilanciata. Fonte trova il proprio stato di grazia e riporta in ogni espressione un cosmo di motivazioni e di dolori, fino al punto di rottura; il suo volto, merce rara nel panorama stantio italiano, e il suo sguardo, pacatamente afflitto, parlano molto più delle disavventure del canaro.
Sotto, infatti, rimandano senza appello al capolinea, alla destinazione violenza e agli innumerevoli itinerari tramite cui raggiungerla.

Voto: 8/10

Luca Zanovello

 

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