Recensione de L’ultimo viaggio, il film di Nick Baker Monteys con Jürgen Prochnow presto al cinema.
IN BREVE: L’ultimo viaggio è un salto nella storia, quella storia del ‘900 segnata indelebilmente dalle follie della Seconda Guerra Mondiale. È un tuffo nella memoria, nella memoria di un anziano signore, nel suo senso di colpa e nel sentimento profondo, quel primo amore che non si scorda mai e che supera le pieghe del tempo tenendo testa anche al dolore più intenso. Ed è il ritorno al presente, a chi siamo e alle nostre fragilità.
I protagonisti
Eduard (Jürgen Prochnow) è un novantaduenne così introverso da dimenticare come si faccia a sorridere. Le sue battute sono caustiche soprattutto con riguardo ad Adele (Petra Schmidt-Schaller), la nipote punk, iper-tatuata che ha abbandonato gli studi per lavorare in un bar. Eduard è appena rimasto vedovo quando lascia un biglietto alla figlia fatto di poche e risolute parole: prendo il treno per Kiev. E senza dare alcuna spiegazione s’imbarca in una traversata di 22 ore dalla Germania attraverso la Polonia sino ad un paese in piena crisi. Ma Eduard è determinato a compiere quell’ultimo viaggio e sarà proprio la giovane Adele a inseguirlo prima e accompagnarlo dopo. Insieme vedranno città, campagne, fiumi e guerre, in un memorabile on the road.
È il 2014 e sul Berlino – Kiev, un trenaccio sprovvisto di tutto, carrozza ristorante compresa, c’è pure Lew (Tambet Tuisk), uno dei tanti ragazzi stranieri che lavorano nella capitale tedesca. Lew si dimostra da subito un soggetto sopra le righe, di quelli che rifuggono qualsiasi discorso politico: è russo ma è nato in Ucraina, si riconosce in entrambe le culture. Più di ogni cosa si sente europeo, non gli interessano i politici corrotti e le guerre di confine. Il destino lo porterà a condividere lo scompartimento con quell’anziano che parlotta russo e con la sua attraente nipote.
Ecco svelato l’eterogeneo trio che supererà barriere e ideologie alla ricerca dell’amore di gioventù di Eduard, un amore puro, sincero e celato così a lungo da determinare tutta la sua vita, una vita segnata dal grande conflitto mondiale. Un conflitto che continua ad influenzare le nuove generazioni.
Il film
L’ultimo viaggio è una di quelle piccole opere che ti catturano con una trama tesa ma mai concitata; con una fotografia fine e curata che riesce a sorprende; e con battute tanto semplici quanto mirate al cuore dei protagonisti, e un po’ anche al nostro.
Il regista Nick Baker Monteys, confeziona una pellicola che si presta a varie letture e lascia libero lo spettatore di scegliere quale grado raggiungere. Lui si limita a raccontare con delicatezza un dramma non troppo dissimile da quello che vivono, o hanno vissuto, tante famiglie del Vecchio Continente, fatto di parole non dette, silenzi pesanti e affetti compromessi. Ad esso affianca una storia romantica che ci riporta indietro nel tempo sino a pagine intrise di sofferenza e rancore. E infine ci riconduce al presente in cui, immancabilmente, tutto trova un senso, tanto le battaglie di un popolo quanto i litigi tra le mura domestiche, e nessuno ne esce vincitore.
Passato e Presente
Ultimamente ci siamo trovati vis-à-vis con lungometraggi che hanno ripercorso varie nefandezze occorse tra il ‘40 e il ‘45 e non siamo riusciti a rimanere impassibili. Oggi riaccade quando scopriamo ciò che lega i tedeschi agli ucraini: le tensioni degli ultimi anni sono frutto di azioni riconducibili ai… cosacchi e alla Wehrmacht – ennesimo particolare che ci disorienta e ci fa sentire un bel po’ ignoranti.
Ad aumentare il disagio ci pensano gli scheletri negli armadi e i giovani, quelli che non conoscono la storia, perché non c’erano, perché non l’hanno ascoltata o perché non vogliono subirne le conseguenze. A rendere l’atmosfera meno greve, ci pensa il rapporto nonno-nipote che s’istaura nel più strampalato dei modi e diventa subito unico, trainante e fonte d’immedesimazione e sorrisi.
L’ultimo viaggio è, infatti, un dramma col pregio di non eccedere mai. Non condanna ma non cancella le colpe. Mostra le conseguenze e la forza del passato da cui non possiamo liberarci perché ha determinato chi siamo. E non dimentica i sentimenti di tutti, di chi è di qua e di là dallo schermo. Ora la riflessione è a carico nostro.
Da vedere.
Vissia Menza
Ennio Flaiano amava ricordare che “Il cinema è l’unica forma d’arte nella quale le opere si muovono e lo spettatore rimane immobile.”, ed è Vissia ad accompagnarci con passione e sensibilità nelle mille sfaccettature di un’arte in movimento. Ma non solo. Una guida tout court, competente e preparata, amante della bellezza, che scrive con il cuore e trasforma le emozioni in parole. Dal cinema alla pittura, con un occhio vigile per il teatro e la letteratura, V. ci costringe, piacevolmente, a correre per ammirare un’ottima pellicola o una mostra imperdibile, uno spettacolo brillante o un buon libro. Lasciarsi trasportare nelle sue recensioni è davvero facile, perdersi una proiezione da lei consigliata dovrebbe essere proibito dal codice penale. Se qualcuno le chiede: ma tu da che parte stai? La sua risposta è una sola: “io sto con Spok, adoro l’Enterprise e sono fan di Star Trek”