TOMB RAIDER: Indiana Croft e il tempio maledetto

Recensione di Tomb Raider, il reboot con Alicia Vikander nel panni di Lara Croft. Al cinema dal 15 marzo 2018.

la locandina italiana del film Tomb Raider (2018)

Iniziamo dalle cose che funzionano, in questo terzo adattamento cinematografico del videoludico Tomb Raider: Walton Goggins. Fine.
L’esperto attore quarantasettenne, ingenerosamente ignoto dalle nostre parti prima della double feature tarantiniana Django Unchained – The Hateful Eight, mette faccia sporca e ghigno borderline al servizio di Mathias Vogel, cattivone con piano criminale average e antagonista di Lara Croft.

Il resto del film, reboot su grande schermo ispirato ai videogiochi Tomb Raider (2013) e Rise of the Tomb Raider (2015), è un grande e grosso naufragio.
Un po’ come quello che colpisce la giovane esploratrice ed archeologa “d’arte” Lara (Alicia Vikander) in cerca del padre disperso (Dominic West), mentre cerca di raggiungere un’isola misteriosa sede dell’ultima missione paterna: il ritrovamento della tomba di una funesta figura mitologica orientale.

Non ho mai giocato a Tomb Raider, ma immagino dai larghi consensi che l’andazzo fosse ben più avvincente e palpitante del corrispettivo su pellicola. Che, con una serie impressionante di ricalchi, diventa un pedante fan-film di Indiana Jones e si perde nei preamboli ben prima di arrivare all’appendice avventurosa.
Gli interpreti sono buoni: già detto del diabolico Goggins (che viene comunque sfruttato con ampio freno a mano), aggiungiamo che la fisicità e il musino della Vikander funzionano meglio della prorompente Jolie, protagonista dei due sciagurati film precedenti.

Alicia Vikander nel film Tomb Raider (2018) – Photo: courtesy of Warner Bros. Italia

Il dramma è ai piani alti, nell’inconcepibile sceneggiatura dei perfetti sconosciuti Alastair Siddons e Geneva Robertson-Dworet, che per oltre un’ora si perde in un bicchier d’acqua, spaesata e incerta come un bimbo al primo giorno di scuola.
Da un progetto del genere non mi aspetto spessore filosofico, ma neanche la noia oceanica, le parole asfittiche e la girandola di siparietti interlocutori che Tomb Raider schiaffa sullo schermo.
Quando la scintilla si ravviva un minimo, nella tetra tomba che restituisce un setting degno del franchise videoludico, è troppo tardi.
Trabocchetti, insidie e maledizioni – per non parlare della rafferma dinamica padre/figlia – sono innocui e didascalici, e lasciano insensibili tanto le frange nerd quanto quelle profane.
Finale “stupefatto” alla Saw e incombente minaccia di sequel.

Menzione speciale per la sequenza di Lara intrappolata in bilico sulla carcassa di un aereo, che diventa una trasposizione quasi frame-to-frame della mitica jeep sull’albero di Jurassic Park, a simboleggiare l’imbarazzante mancanza di idee, originalità e prospettive di Tomb Raider.
Per la serie: non gode neanche chi s’accontenta.

Luca Zanovello

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