Un commento al film Egon Schiele diretto da Dieter Berner. Al cinema il 26, 27, 28 febbraio 2018.
I capelli scuri, folti e ribelli, la pelle ambrata, l’espressione grave ma furba, il portamento da dandy e quei grandi occhi scuri penetranti “da cui doveva scacciare un sogno”. Lo descrive così Roessler, amico e futuro biografo, all’alba dei suoi sedici anni quando del 1906 entra all’Accademia delle Belle Arti di Vienna, anche se per restarci nemmeno due anni. Egon Schiele, il prodigio di Vienna, quel ragazzo “bravo, forse troppo” nel disegnare – così gli diceva l’amico e maestro Klimt.
E anche nel film (Dieter Berner, Egon Schiele, 2017) la descrizione calza a pennello. Giovane, bello, con i capelli folti e scuri e gli occhi penetranti: il giovane Noah Saavedra, classe 1991, sembra abbia il ruolo cucito addosso. Ma non è solo merito suo se la trasposizione su schermo della breve, leggendaria vicenda del pittore viennese riesce tanto piacevole. Vero che una spettatrice come me può essere un tantino di parte: amante dell’arte quale sono – dell’arte a cavallo tra ‘800 e ‘900 in particolare – non posso che rimanere affascinata da un pittore come Schiele, da quel tratto spigoloso e spezzato che trasuda in ogni pigmento la tragicità di un’epoca al suo canto del cigno. Ma la verità è che il film risulta elegante, seducente, mi verrebbe da dire raffinato – se si può descrivere con questi aggettivi una pellicola.
Una fotografia pulita; la bella, limpida luce chiara dell’Europa continentale che fa da protagonista nelle riprese all’aria aperta a Krumau: sul fiume, nelle scene della gita in bicicletta. E ancor di più nella campagna di Neulengbach e tra i suoi boschi di betulle, con quei colori così nitidi nei loro contrasti: due occhi celesti che brillano sul volto di Wally contornati da una spavalda chioma rosso fuoco.
Per non parlare della puntualità della citazione: quegli infiniti giochi di richiami che ordiscono la trama e che seducono lo spettatore più attento allo stesso modo in cui incantano quello più ignaro.
E poi la vera scommessa della regia: girare un film su un pittore in cui l’arte non appare, se non di sbieco, quasi per sbaglio, come un surplus piacevole ma non necessario. La presenza di quadri e disegni in scena non serve perché è l’inquadratura stessa che si fa opera: le pose, i tagli fotografici, le scenografie, i colori; le opere di Schiele prendono vita sulla pellicola, anzi, danno vita alla pellicola. Vediamo il protagonista contemplarsi – davanti a quello specchio sempre presente, fin dalle primissime scene, testimone silenzioso del tema del doppio che tanto il pittore ha rappresentato – e assumere quelle stesse posture che facilmente riconosciamo nei suoi quadri: vediamo mimare Autoritratto nudo con veste ornamentale (1909), Autoritratto con Alchechengi (1912), e persino Autoritratto mentre disegna una modella nuda di fronte a uno specchio durante prima visita di Moa nello studio di Vienna del giovane Schiele. Tutte riprese dal vivo, in movimento, in carne ed ossa.
È davvero stupefacente come siano state bandite, in particolare, tutte le tele degli autoritratti: delle (numerosissime) opere di Schiele oltre la metà sono immagini di se stesso atte ad indagare la propria psiche; e anche laddove il soggetto è diverso, l’autore depone comunque qualcosa di sé, un’impronta, un’ombra, una maschera. Ci annuncia di essere lui, solo lui il soggetto della sua arte, facendo di tutto ciò che dipinge l’espressione dei suoi stati d’animo e delle sue idee: “Io sto dipingendo quel me stesso su cui poso lo sguardo, io sono contemporaneamente colui che guarda e colui che è visto”.
Ma nel film nessun disegno, nessun acquarello, né olio di sé. Non è una mancanza: è che non servono. La presenza immensa del protagonista è già resa grazie alla performance: esiste lui, solo lui, lui in quanto artista, nessun altro. Nessuna donna – né l’amata sorellina Berti (bel personaggio e bella interpretazione della giovane attrice Maresi Riegner), né il suo amore immaturo e sregolato per la bella Wally, e di sicuro non Edith, la moglie borghese che nel film ricopre un ruolo non solo secondario, ma quasi di facciata -, nessun amico, nessun interesse. Nulla se non l’arte, quell’arte immortale per cui lo stesso Schiele si spingerà a puntualizzare che “non c’è nessuna nuova arte, ma solo nuovi artisti”. L’arte oltre il denaro – “l’arte non ha prezzo”. L’arte oltre gli stessi artisti: nonostante la forte influenza ricevuta dalla fotografia, da Klimt, da Toulouse-Lautrec da Van Gogh e molti altri, quando la bella Moa chiede di avere il suo nome sul ritratto che la vede protagonista, Schiele si rifiuta – “ci scriverò il mio di nome, sono io l’artista”.
Ma l’aspetto che più di tutto rende il film apprezzabile, a mio avviso, è il punto di vista sullo stesso protagonista dal quale è girato. Contro ogni visione comune che tramanda Schiele come un artista tormentato dai propri fantasmi, sempre in bilico tra il genio e la follia, il giovane pittore appare qui come un ragazzo – quale dopotutto è sempre stato – amante del divertimento e attaccato alla vita. Un ragazzo che vive la propria passione per l’arte in una maniera tanto profonda da farne l’orizzonte ultimo, ma che allo stesso tempo si circonda di donne, di agi, di amici. Un ragazzo prodigio per cui tutto è possibile, che ha nello sguardo quella serenità spregiudicata di chi guarda il mondo con occhi ancora verdi e a cui il mondo stesso non può dire di no.
Un vero tributo alla giovinezza. E a Schiele, eterno bambino.
Federica Musto
n.d.r. Il film Egon Schiele è distribuito dalla Draka Distribution in collaborazione con Twelve Entertainment, un clic qui per l’elenco delle sale. Di seguito il trailer italiano.
La più giovane del gruppo, blogger appassionata d’arte (suo è il sito A Spasso con Apollo e Dionisio), instancabile frequentatrice di gallerie e musei. Aspirante giornalista culturale, il suo stile fresco e sincero vi spingerà a scoprire più di una mostra.
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