Recensione di “The Nile Hilton Incident”, intrigante noir con risvolti politici vincitore al Sundance 2017, al cinema dal 22 febbraio.
Gennaio 2011. In una stanza del lussuoso Nile Hilton Hotel del Cairo una cameriera rinviene il cadavere di una bella ragazza ferocemente sgozzata. Il delitto viene immediatamente definito come “passionale” e i poliziotti incaricati non paiono particolarmente motivati a risolverlo: la Primavera araba sta iniziando, in quei giorni stanno montando le proteste contro il regime di Mubarak; e chiunque abbia un minimo di potere è preoccupato di conservare la propria posizione. A capo delle indagini è il maggiore Nuredin Mostafa, di recente vedovo, da anni in servizio presso il centrale commissariato di Quasr al-Nil – a pochi passi dalle ambasciate e da piazza El-Tahrir – sotto il comando dell’influente zio, generale Kammal Mostafa.
Come la maggior parte dei poliziotti del Cairo è corrotto: accetta bustarelle, riscuote il pizzo dai commercianti del quartiere, estorce denaro ai criminali. E chiude tutti e due gli occhi davanti alle violenze e alle torture che ogni giorno avvengono nel commissariato. Quando però riceve dal potente zio l’esplicito ordine di archiviare l’indagine come suicidio (!) perché vi sarebbero coinvolte persone assai influenti, per testardaggine – mista a quel briciolo di dignità che gli è rimasta – decide invece di continuare. Una cosa non gli torna: è misteriosamente sparita Salwa, la giovane cameriera sudanese che aveva dichiarato di avere visto bene un uomo uscire dalla stanza, e con lei la sua deposizione. Quando Gina, fascinosa cantante, si presenta a denunciare la scomparsa di una sua amica, si scopre che la vittima, presunta prostituta, era in realtà una cantante tunisina piuttosto nota in città per le sue frequentazioni altolocate.
Tra i suoi effetti personali Nuredin trova una ricevuta e recupera da un fotografo alcune foto appena sviluppate della donna in compagnia di un amante: sono state scattate di nascosto e sono decisamente compromettenti, dietro l’omicidio probabilmente c’è un ricatto. L’amante è infatti Hatem Shafiq, ricco palazzinaro appartenente ad una famiglia molto potente, membro del Parlamento ed amico personale del Presidente Mubarak. Si mette così sulle tracce di Nagui, ufficialmente agente di spettacoli, in realtà un magnaccia, che in un elegante night club procura ai pezzi grossi della politica e dell’economia belle ma ingenue ragazze straniere, arrivate in città come aspiranti cantanti e attrici. Quando di colpo riceve attenzioni non gradite da un uomo dei Servizi segreti, Nuredin capisce di essere sulla pista giusta.
Lo sceneggiatore e regista Tarik Saleh, nato in Svezia da madre svedese e padre egiziano, si è ispirato alla storia vera dell’omicidio nel 2008 della cantante libanese Suzanne Tamin: il colpevole era un uomo d’affari e parlamentare egiziano. Fu uno shock per la nazione, non per l’omicidio in sé, ma che una persona di tale livello, un “intoccabile” in stretta relazione con la famiglia Mubarak, venisse condannata.
Ha iniziato a scrivere Omicidio al Cairo nel 2010, un anno prima della rivoluzione egiziana, sotto forma di un noir nello stile di Raymond Chandler. Negli anni successivi ha deciso di fare alcune modifiche alla sceneggiatura, con l’intenzione di utilizzare un plot classico per raggiungere un pubblico internazionale e raccontare la capillare corruzione del sistema egiziano. Le democrazie occidentali non sono certo esenti dal fenomeno, però non si tratta di qualcosa con cui le persone comuni devono fare i conti ogni giorno, per le più piccole cose.
La Primavera Araba in Egitto è stata soprattutto una rivoluzione contro lo strapotere della polizia e la corruzione; iniziò il 25 gennaio 2011, il giorno in cui l’Egitto celebra la Festa della Polizia. E proprio in quel giorno si svolge l’ultima scena del film. Omicidio al Cairo descrive la situazione che portò i giovani egiziani a sollevarsi contro la polizia e l’élite corrotta: un regista che vive e lavora in Egitto non sarebbe mai riuscito a trovare i finanziamenti per girare un film come questo, che mostra il sistema così esplicitamente.
E anche Saleh nel 2016 ha rischiato di non farcela. Lo racconta nelle Note di Regia: “Si tratta di un film sul Cairo, sul passato e sul futuro che collidono – e sulla gente che rimane schiacciata in mezzo. Tre giorni prima dell’inizio delle riprese l’Egyptian State Security ci ha messi a tacere e abbiamo dovuto spostare la produzione a Casablanca. Ero devastato. Poi ho pensato a Fellini e ad Amarcord. La gente della sua città, Rimini, può giurare di aver riconosciuto nel film strade e case. Lui, però, aveva girato a Cinecittà. Si poteva fare! Ma per ricreare una città devi catturarne l’anima. E Noredin è la nostra guida, un Principe della città.”
Per il ruolo principale è stato scelto lo svedese di origine libanese Fares Fares, protagonista di molti film per il cinema e per la tv svedese, attore notevole fin dal debutto nel 2000 in JALLA! JALLA! diretto da suo fratello Josef, e visto di recente da noi in LA COMUNE di Thomas Vinterberg. Attorno al suo fisico così particolare Saleh ha cucito il personaggio del classico investigatore malinconico e senza scrupoli che, messo di fronte ad una clamorosa ingiustizia, si impunta e decide di mettervi rimedio. Un duro capace di inattese tenerezze, ad esempio nella scena in cui fa il bagno al vecchio padre, o per come si prende cura della ritrovata, spaventatissima testimone. Salwa, una dei tanti “invisibili” senza documenti che lavorano nelle città di tutto il mondo, è interpretata con passione da Mari Malek, ovvero DJ Stiletto, già top model a New York dove è arrivata bambina, profuga dal Sudan; oggi è anche un’attivista per il diritto allo studio delle bambine africane.
Omicidio al Cairo è dunque sì un noir, ma è insieme un film fortemente politico e di denuncia, come negli anni 70 sono stati Z L’ORGIA DEL POTERE di Costa-Gavras o INDAGINE SU DI UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO di Elio Petri. Un film che vuole scuotere il pubblico, fargli aprire gli occhi sulla realtà. E ci riesce.
Marina Pesavento
Casalinga per nulla disperata, ne approfitta per guardare, ascoltare, leggere, assaggiare, annusare, immergersi, partecipare, condividere. A volte lunatica, di gusti certo non facili, spesso bizzarri, quando si appassiona a qualcosa non la molla più.
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