Isle of Dogs: sull’isola dei rifiuti alla ricerca del nostro migliore amico (o semplicemente del nostro io)

Recensione di Isle of Dogs (L’Isola dei Cani), il nuovo film di Wes Anderson che ha aperto la 68ma edizione della Berlinale.

la locandina italiana del film Isle of Dogs (L’isola dei Cani)

Wes Anderson ha inaugurato la Berlinale 2018 col sorriso. La sua Isle of Dogs (nei nostri cinema il prossimo maggio), per una volta tradotta con fedeltà ne L’Isola dei Cani, è una favola ambientata a Megasaki City, nel Giappone del futuro prossimo. Sulla vicina isola di rifiuti vengono esiliati gli ex-migliori amici dell’uomo, i cani, a causa della sovrappopolazione e di un’influenza canina tanto epidemica quanto sospetta, che si scopre presto sia stata creata in laboratorio per subdoli fini politici. Sarà un bambino, il dodicenne Atari Kobayashi, alla ricerca della sua guardia del corpo a quattro zampe, a dare una svolta a quello che appare uno stermino annunciato.

Il ragazzino prima spicca il volo su un mini-aereo catorcio, quindi si schianta sull’Isola. Poi, guidato da un branco di cani alfa, spelacchiati e nostalgici, soprattutto dal cuore di marzapane, attraversa l’arcipelago sulle tracce del suo amato Spots.

Un’immagine del film Isle of Dogs (L’isola dei Cani) © 2018 Twentieth Century Fox

Per il suo nono lungometraggio, e secondo in stop-motion, il regista texano ha convocato alla sua corte autori e voci favolose, molte delle quali presenti a Berlino (Jason Schwartzman, Roman Coppola, Bob Balaban, Bill Murray, Greta Gerwig, Bryan Cranston, Wes Anderson, Koyu Rankin, Liev Schreiber, Jeff Goldblum, Tilda Swinton e Kunichi Nomura hanno preso la parola in conferenza stampa), e ha confezionato una nuova favola che, forse più dei precedenti lavori, riesce ad affascinare sia i giovani sia gli adulti.

La trama ruota intorno ad un pilastro della sua cinematografia: la famiglia, la ricerca degli affetti, che oggi si allarga al concetto di comunità e coinvolge un’altra specie, gli amati amici pelosi. Interessante è stato quindi scoprire che tutto fosse nato anni fa come un racconto sui cani, un’animazione ispirata a quella nipponica, ambientata in una città futuristica inesistente, e soltanto nelle fasi finali si siano resi conto che l’opera sarebbe uscita al momento giusto.

Un’immagine del film Isle of Dogs (L’isola dei Cani) © 2018 Twentieth Century Fox

Come ci insegna la storia dalla notte dei tempi, il potere inebria e fa perdere il senso della misura all’homo sapiens e Isle of Dogs non prescinde da tale assunto. A prima vista quindi, il film potrebbe apparire con un fine politico che invece non ha. È un’avventura sprovvista di CGI (al suo posto sono stati usati dei simpatici pupazzetti) che ci tiene in sospeso tra una nota (scritta da Alexandre Desplait) e una battuta arguta (sin dai titoli di testa s’inizia a ridere). Il mix di attesa e ilarità, di gesti di speranza e cospirazioni, di zuffe e di biscottini per cani, ci coinvolge atto dopo atto così tanto da illuderci che la visione duri molto meno dei suoi 101 minuti complessivi.

Ammetto che nei corridoi del Palast aleggiasse apprezzamento ma non si sia urlato al capolavoro. Forse, l’attesa era troppo alta o, ancor più probabile, la meticolosità di Anderson ci ha viziato a lungo e ora pretendiamo superi se stesso. Qui afferma le sue qualità e lo fa con ammirevole equilibrio. Nella sua Isola dei Cani c’è, nel bene e nel male, un po’ di tutti noi e molto della nostra epoca. È lecito (e auspicabile) subirne il fascino e godersi l’avventura, tornando, perché no, un po’ anche bambini.

Vissia Menza

 

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